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Per Aspera Ad Veritatem n.28
Sicurezza nazionale, segreto e giurisdizione.

Ludovico SFORZA




Il presente lavoro ha lo scopo di proporre una compiuta riflessione sulla nozione di “segreto di Stato” e la sua evoluzione concettuale, quale si è venuta delineando nel tempo attraverso il susseguirsi di vari interventi legislativi, tra cui, in particolare, la legge 7.8.1990, n. 241 (“Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”), che ha ribaltato il più che secolare principio della segretezza amministrativa. Nella disamina si è naturalmente riservata peculiare attenzione al contesto dell’intelligence, in cui l’istituto trova precipua applicazione.
Senza alcuna pretesa di pervenire a soluzioni definitive si è cercato, quindi, attraverso la ricostruzione secondo una linea interpretativa logica e coerente della disciplina in materia di tutela del segreto di Stato, di cogliere la ratio dell’istituto, quale strumento a presidio di interessi inerenti alla sicurezza nazionale.
Per fare questo è parso opportuno partire da una ricostruzione della nozione, avvalendosi delle fonti normative e della giurisprudenza, in primo luogo della Consulta; in un secondo momento, è stata effettuata una ricognizione della disciplina che il Legislatore penale ha dato alla materia, sia per i profili sostanziali che processuali. Non eludibile è sembrata, poi, una breve disamina del rapporto tra il segreto di Stato, da una parte, e la citata legge n. 241/1990, nonché la disciplina contenuta nel decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (“Codice in materia di protezione dei dati personali”), dall’altra, prima di indagare, in conclusione, il rapporto tra il segreto di Stato e il processo amministrativo.



La necessità di una revisione organica ed integrale della disciplina relativa ai pubblici segreti, che investa cioè tutte le forme di segretezza esistenti nel diritto pubblico, non è sfuggita allo stesso Legislatore del 1977, laddove con l’art. 18 della legge n. 801 si attribuisce carattere di transitorietà al regime di cui al Titolo I, libro II, del Codice penale. Del resto reiterate raccomandazioni nel senso sono state formulate dalla Corte Costituzionale, da ultimo, nella sentenza 19/28 giugno 2002, n. 295 (1) .
Tale problematica esula dalle finalità della presente trattazione, così come intuibili ragioni di economia inducono ad affrontare il tema partendo dalla più volte citata legge n. 801/1977, senza indagare la situazione previgente, se non limitatamente a due fondamentali pronunce della Corte Costituzionale che hanno dato determinante impulso alla promulgazione della legge n. 801: la n. 82 del 6 aprile 1976 (2) e la n. 86 del 24 maggio 1977 (3) .
Nelle menzionate sentenze la Consulta delinea un quadro univoco ed esauriente delle nozioni di “sicurezza nazionale” e “segreto di Stato”, individuandone finalità, natura e limiti.
In particolare, con la sentenza n. 86/1977 viene accolta, sia pure con motivazioni difformi rispetto a quelle formulate dal giudice remittente, la questione di legittimità costituzionale degli artt. 342 e 352 c.p.p. al tempo vigenti, sollevata in relazione agli artt. 101, 102 e 112 Cost.. Oggetto del sindacato di costituzionalità non è quello che, ante legge 801, era denominato il “segreto politico-militare” (4) , bensì la disciplina che di esso fornivano gli artt. 342 e 352 c.p.p. e per effetto della quale era inibito qualsivoglia intervento del potere giudiziario, lasciando, di contro, il potere esecutivo completamente arbitro.
La Corte argomenta, in termini assolutamente condivisibili, che il principio di segretezza esiste e resiste, rispetto ad altri valori costituzionali alla cui tutela è preposto l’ordinamento giurisdizionale, solo se trova fondamento in altre esigenze anch’esse costituzionali ma di rango superiore. La sua ragion d’essere è dunque nella finalizzazione “al supremo interesse della sicurezza dello Stato nella sua personalità internazionale”, nella sua preordinazione alla tutela dell’interesse “dello Stato-comunità alla propria integrità territoriale, alla propria indipendenza e, al limite, alla propria sopravvivenza”.
La “costituzionalizzazione” di tale interesse viene quindi individuato dalla Consulta negli artt. 52 e 126 della Carta costituzionale, ove si fa riferimento al concetto di “sicurezza nazionale”. Il concetto di “difesa” trova, invece, specificazione nell’art. 87 (Consiglio Supremo di Difesa) che, posto in connessione con gli artt. 5 e 1 (“che riassume i caratteri essenziali dello Stato stesso nella formula di «repubblica democratica»”), rende possibile attribuire contenuto concreto alla nozione di segreto.
Il segreto è, quindi, legittimo solo quando è posto a tutela degli interessi nazionali, come sopra specificati, riferiti allo Stato-comunità e nettamente distinti dagli interessi dell’Esecutivo in carica e dei partiti.
A dimostrazione di quanto la giurisprudenza costituzionale abbia influenzato il Legislatore del 1977 merita richiamare la circostanza che la Corte, nella puntuale disamina degli interessi che legittimano il segreto di Stato (per comodità si anticipa l’utilizzo della terminologia della legge del 1977), si preoccupa di chiarire, al fine di fugare ogni possibile dubbio, “che mai il segreto potrebbe essere allegato per impedire l’accertamento di fatti lesivi dell’ordine costituzionale”. Esclusione, questa, che troviamo puntualmente riprodotta nell’art. 12, 2° co., della legge n. 801/1977 (“In nessun caso possono essere oggetto di segreto di Stato fatti eversivi dell’ordinamento costituzionale”) e che, in realtà, potrebbe apparire inutile, in quanto una legge ordinaria che legittimasse “fatti eversivi dell’ordinamento costituzionale” sarebbe colpita da immediata illegittimità (costituzionale).
La Corte prosegue chiarendo che il criterio della materia non è di per sé sufficiente, ma deve essere affiancato da un “ragionevole rapporto di mezzo al fine”, da utilizzare “in ogni singolo caso concreto”.
Secondo il dictum della Consulta, la valutazione circa l’opposizione del segreto di Stato è rimessa all’autorità preposta. La sua natura, ampiamente discrezionale, presenta connotati squisitamente politici che esorbitano dalla sfera della mera discrezionalità amministrativa, in quanto attiene “alla salus rei publicae”. L’autorità deputata a siffatta valutazione è il Presidente del Consiglio dei Ministri, in quanto organo di vertice dell’organizzazione governativa, cui l’art. 95 della Costituzione affida la responsabilità della politica generale del governo, comprensiva, evidentemente, anche dell’attività (politica) della difesa interna ed esterna dello Stato.
Dal presupposto maggiore e cioè che la sicurezza dello Stato “costituisce interesse essenziale, insopprimibile della collettività, con palese carattere di assoluta preminenza su ogni altro, in quanto tocca, (…), l’esistenza stessa dello Stato, un aspetto del quale è la giurisdizione,” e che ciò attiene ad una discrezionalità squisitamente politica, la Corte trae la logica conseguenza che il giudizio sui mezzi idonei, atti a garantire la sicurezza dello Stato, non è attività del giudice. Infatti, l’assoggettamento dell’ammissibilità o meno dell’apposizione del segreto all’autorità giudiziaria significherebbe eliminarlo ancora prima che intervenga una pronuncia del giudice. D’altro canto, ricorda la Corte, il sindacato di merito sugli atti del potere esecutivo, anche da parte del giudice amministrativo, è ammesso solo ove venga espressamente stabilito dalla legge.
Al giudice è inibita la valutazione della fondatezza dell’eccezione di segretezza, competendo allo stesso esclusivamente la verifica circa l’essenzialità della prova per la definizione del processo. Del pari è precluso all’A.G. il giudizio sui mezzi idonei atti a garantire la sicurezza dello Stato.
Secondo il Giudice di costituzionalità l’attività dell’Esecutivo in materia di sicurezza nazionale e segreto di Stato non è esente da responsabilità, che, invece, permane in capo al Governo, ex artt. 94 e 95 Cost. e può essere fatta valere dal Parlamento. A ciò occorre soggiungere che, secondo il decisum della Corte, l’esistenza del segreto di Stato deve essere opportunamente, anche se in maniera essenziale, motivata.
Sulla base delle suesposte argomentazioni, la Corte conclude dichiarando l’illegittimità costituzionale degli artt. 342 e 352 c.p.p., all’epoca vigenti, nella parte in cui prevedono che l’informativa del Procuratore Generale presso la Corte di Appello sia rivolta al Ministro della Giustizia e non al Presidente del Consiglio dei Ministri, nonché nella parte in cui non prevedono che il Presidente del Consiglio dei Ministri debba indicare, in un lasso di tempo ragionevole, le ragioni essenziali della conferma del segreto.
La legge 24 ottobre 1977, n. 801, promulgata a pochi mesi di distanza dalla sentenza, recepisce appieno tutte le statuizioni della Corte, dettando una disciplina sufficientemente compiuta in materia di segreto di Stato, pur dichiaratamente temporanea (art. 18). Viene, inoltre, delineata una nuova organizzazione dei Servizi d’intelligence.
Più recentemente, la Corte Costituzionale è nuovamente tornata sull’argomento con la sentenza n. 110 del 9 aprile 1998 (5) , resa in esito ad un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sollevato dall’Esecutivo nei confronti della Procura di Bologna, in relazione ad attività istruttoria da questa svolta, elusiva degli effetti dell’opposizione e conferma del segreto di Stato.
Le tesi che si contrappongono nel giudizio di che trattasi possono essere così sintetizzate. Secondo la Procura resistente, gli artt. 202 e 256 c.p.p. non sarebbero ostativi all’accertamento, aliunde, di fatti coperti da segreto. Le disposizioni richiamate subordinano la dichiarazione di “non doversi procedere” all’essenzialità della prova per la definizione del processo, ma non precluderebbero al P.M. la possibilità di rintracciare altrove ed utilizzare per la prosecuzione del procedimento prove diverse da quelle “incise” dal segreto di Stato e, quindi, non acquisibili.
A questa tesi il Presidente del Consiglio eccepisce che il segreto (di Stato) non attiene né alla forma della notizia, né alle sue modalità di acquisizione, in quanto oggetto della tutela è la notizia in sé. Ciò in relazione alla ratio del segreto di Stato, che è quella di impedire la diffusione di determinate notizie che possano mettere in pericolo l’integrità e la sicurezza dello Stato democratico, laddove il processo penale, per sua natura, implica invece tale divulgazione.
Così sintetizzato l’oggetto del contendere, è invero interessante ripercorrere l’iter argomentativo della Corte, ricco di significative enunciazioni e proficui spunti di riflessione.
In primo luogo, sono ribaditi i principi già focalizzati nelle precedenti pronunce nn. 82/1976 e 86/1977: il segreto trova legittimazione solo ed in quanto strumento necessario per la tutela dei supremi interessi dello Stato, attinenti cioè alla sua integrità territoriale, indipendenza e, al limite, alla sua stessa sopravvivenza; la sicurezza dello Stato è interesse essenziale e insopprimibile della collettività e, in quanto tale, è assolutamente prevalente su ogni altro aspetto, ivi compresa la giurisdizione.
Tanto premesso, però, la Consulta non manifesta condivisione per la tesi prospettata dal Presidente del Consiglio e sintetizzabile nell’assunto secondo il quale l’opposizione del segreto di Stato sarebbe preclusiva di ulteriori indagini. La sentenza afferma, infatti, che i rapporti tra potere esecutivo e potere giudiziario debbono essere improntati al principio di legalità e che una siffatta interpretazione altererebbe l’equilibrio tra i due poteri. Né, prosegue la sentenza, la Corte Costituzionale, in assenza di una base legislativa, può sostituirsi al Legislatore, operando in concreto e di volta in volta valutazioni di merito attinenti al bilanciamento tra i valori che si vuole tutelare con il segreto e quelli, invece, protetti dalle fattispecie incriminatrici.
Ne deduce quindi la logica conseguenza che l’opposizione del segreto di Stato non ha l’effetto che gli vorrebbe attribuire il Presidente del Consiglio, bensì quello, più limitato, di impedire all’autorità giudiziaria l’acquisizione e l’utilizzazione di elementi di conoscenza o prova coperti da segreto.
Di rilievo è poi la constatazione che l’attuale disciplina non contempla alcuna immunità sostanziale all’attività dei Servizi rendendo doverosa una riflessione circa la necessità di una riforma dell’intelligence che, introducendo quelle ipotesi di immunità sostanziale collegate all’attività dei Servizi informativi, sottragga alla disciplina processuale del segreto di Stato l’improprio compito di “scriminante” di fatto. È questo l’aspetto più qualificante del disegno di legge di modifica della l. n. 801, presentato dall’attuale Governo (6) .
Ad una prima, sbrigativa lettura, la pronuncia della Corte potrebbe indurre in perplessità. Infatti, se il segreto di Stato è strumentale alla protezione di quei valori supremi individuati nelle sentenze 82/1976 e 86/1977 e riconfermati nella pronuncia in commento, e se tali valori sono superiori a quelli tutelati dal potere giurisdizionale, non è possibile che l’autorità giudiziaria possa eludere il divieto acquisendoli altrove. A ciò potrebbe indurre il riferimento formale, operato dalla Corte, agli atti e documenti in luogo delle informazioni e notizie in essi contenuti.
In realtà, ad un più accorto esame emerge che i giudici della Consulta si riferiscono a fatti ed informazioni completamente diversi da quelli coperti da segreto e la cui acquisizione al procedimento non costituisce un vulnus per questi ultimi. L’interpretazione testé prospettata trova conferma nella successiva pronuncia n. 410 del 10 dicembre 1998, resa in esito ad un secondo conflitto di attribuzione sollevato dal Presidente del Consiglio (7) .
Sempre in tema di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato particolarmente interessante è anche la sentenza n. 487 del 25 ottobre 2000 (8) , nella parte in cui afferma che, una volta intervenute precedenti pronunzie (nel caso di specie le n.ri 110 e 410 del 1998) che hanno privato di valore processuale determinati documenti in quanto incisi dal segreto di Stato, la loro inclusione nel fascicolo processuale è impropria e indebita, sorgendo, invece, l’obbligo di restituzione dei medesimi al responsabile della custodia e il divieto di allegazione al fascicolo trasmesso al giudice per l’emanazione dei provvedimenti conseguenti.
La stessa regola si deve ritenere che valga anche nel caso in cui il segreto di Stato, legittimamente opposto, non sia stato oggetto di un giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto, anche in questo caso, la fissazione dell’udienza preliminare importerebbe la conoscibilità dei documenti da parte di terzi.
Nella panoramica della giurisprudenza costituzionale di grande rilievo è poi la sentenza n. 295 del 19/28 agosto 2002, con la quale è stata dichiarata non fondata una questione di legittimità costituzionale sollevata in merito all’art. 262 c.p.. In tale contesto, la Consulta si discosta dal presupposto interpretativo dell’ordinanza di remissione, sintetizzabile nell’assunto che le notizie riservate, rectius di vietata divulgazione, secondo la rubrica del citato articolo, sarebbero ontologicamente diverse da quelle coperte da segreto di Stato ex art. 12 l. n. 801/1977. Viceversa, aderisce in toto al dictum della sentenza della Cassazione - Sez. I n. 3348 del 10 dicembre 2001 - 29 gennaio 2002, che aveva puntualizzato, con esemplare chiarezza ed incisività, che: “le notizie riservate – intese come notizie «delle quali, pur conosciute o conoscibili in un determinato ambito, è vietata la divulgazione con provvedimento dell’autorità amministrativa» – costituiscono categoria omogenea sul piano dei requisiti di pertinenza e di idoneità offensiva, rispetto a quella delle notizie sottoposte al segreto di Stato.” “Facendo leva sul collegamento storico-sistematico riscontrabile tra le due categorie di notizie, e traendo altresì specifico argomento dal regime delle esclusioni dal diritto di accesso delineato dall’art. 24 della legge 7 agosto 1990, n. 241 e della relativa normativa regolamentare di attuazione, il Giudice di legittimità ha affermato, più in particolare, non soltanto che le notizie riservate debbono inerire ai medesimi interessi che, a mente dell’art. 12 della legge n. 801 del 1977, giustificano il segreto di Stato; ma altresì che la loro diffusione deve risultare idonea – al pari di quanto avviene per le notizie sottoposte a segreto di Stato, in forza delle norme definitorie da ultimo citate – a recare un concreto pregiudizio ai predetti interessi. Nella medesima decisione si precisa, inoltre, che il divieto di divulgazione, analogamente a quello impositivo del segreto di Stato – concorrendo ad integrare la fattispecie precettiva della norma incriminatrice – resta soggetto al sindacato di legittimità da parte del giudice penale, segnatamente in rapporto agli accennati requisiti di inerenza contenutistica e di attitudine offensiva della notizia che ne costituisce oggetto”.
Secondo il giudice costituzionale e quello di legittimità, quindi, la nozione di segreto di Stato ricomprende anche gli atti e i documenti riservati o di vietata divulgazione, nella misura in cui questi ultimi assolvano alle medesime finalità di tutela dei superiori interessi dello Stato, come prima focalizzati.
D’altro canto, e veniamo qui ad affrontare un altro tassello del mosaico, la legge non opera alcun distinguo tra “segreto di Stato” e “atti di vietata divulgazione”. Ciò non significa che i secondi non rientrino nella previsione. Al contrario, vuol dire soltanto che il Legislatore del 1977 ha adottato un criterio diverso per individuare l’ambito di operatività del segreto di Stato. Infatti, il più volte citato art. 12, da un lato, individua ciò che è oggetto della tutela approntata (lo Stato democratico e la sua indipendenza, le istituzioni poste dalla Costituzione, il libero esercizio delle funzioni da parte degli organi costituzionali, la preparazione e la difesa militare, etc.), dall’altro il presupposto perché la tutela operi e cioè che la diffusione di tali atti, documenti, notizie, attività e ogni altra cosa sia idonea a recar danno, abbia cioè attitudine offensiva. La valutazione circa tale idoneità è rimessa alla discrezionalità politica.
La disposizione in parola non opera alcun distinguo circa l’entità del danno che il segreto di Stato è finalizzato ad impedire, talché può essere opposto per prevenire sia un danno gravissimo che uno lieve. Per vero, la formulazione dell’art. 262 c.p. non induce a ritenere che le notizie di vietata divulgazione costituiscano una categoria separata dal segreto di Stato, come peraltro confermato dal citato orientamento della Cassazione e della Consulta. In realtà, la nozione di segreto di Stato è contenuta nella legge n. 801/1977 e non nel codice penale, che si limita a richiamarla solo ai fini dell’integrazione della fattispecie incriminatrice.
Un compiuto inquadramento della questione presuppone però che sia dia soluzione, o quanto meno si tenti di darla, ad un problema collaterale e cioè se vi sia, o meno, la necessità, affinché un atto, un documento, una notizia, una attività e quant’altro possa considerarsi protetto dal segreto di Stato, di una formale delibazione dell’autorità competente, che si concretizzi nell’apposizione di particolari segni distintivi agli atti, ai documenti o, comunque, ai supporti che recano o contengono la notizia; cioè, quella che, anche nel linguaggio internazionale, viene chiamata “classificazione”.
Quanto sopra detto, circa il fatto che è la legge che fissa l’ambito di operatività del segreto e le relative condizioni, fa optare per la tesi negativa: infatti, la non copiosa giurisprudenza in materia (9) afferma che, stante il disposto dell’art. 12 della l. n. 801, il carattere di segretezza di fatti e notizie, per essere inerenti alla sicurezza dello Stato, prescinde dall’attribuzione di una classifica. La stessa giurisprudenza, nel porre in collegamento le disposizioni della l. n. 801/77 con quelle della l. n. 241/90, ha anche chiarito che esistono atti e notizie oggettivamente segrete e atti e notizie ove la segretezza viene formalmente attestata con un provvedimento di classificazione, in relazione alle finalità indicate dalle disposizioni di legge e di regolamento.
È fondato dunque concludere che l’opposizione del segreto di Stato non postula necessariamente la classificazione dell’atto, presupposto peraltro non richiesto neanche per l’integrazione della fattispecie incriminatrice. E tale assunto conforta ulteriormente la tesi della non configurabilità di una categoria “divieto di divulgazione” autonoma rispetto al segreto di Stato.
In effetti, la nozione di “notizie di vietata divulgazione” sembra più propriamente inerente all’attività di classificazione che, nell’ambito del segreto di Stato, la competente autorità è demandata a svolgere, in relazione all’entità del potenziale danno che deriverebbe dalla diffusione di talune notizie rispetto ad altre.
Conforta in questo convincimento il DPCM 11 aprile 2003, che ha dettato le “Norme di sicurezza per la tutela delle informazioni UE classificate, di attuazione della Decisione della Commissione delle Comunità europee del 29 novembre 2001” (10) . Infatti, al punto 4.2, “Definizioni” dell’allegato alla Decisione della Commissione, si legge, alla lett. a): “«informazioni classificate UE (ICUE)»: le informazioni e i materiali la cui divulgazione non autorizzata potrebbe recare in varia misura pregiudizio agli interessi dell’UE o a uno degli Stati membri, sia che le informazioni suddette provengano dall’interno dell’UE ovvero dagli Stati membri, da Stati terzi o da organizzazioni internazionali”. Ancora, la lett. f) del medesimo punto 4.2, definisce: “«classificazione»: il conferimento di un idoneo livello di sicurezza ad informazioni la cui divulgazione non autorizzata potrebbe recare in certa misura pregiudizio agli interessi della Commissione o degli Stati membri”.
Il punto 16.1, poi, definisce i diversi gradi di classificazione proprio in relazione alla “varia misura” del pregiudizio. Conseguentemente sono classificate: UE SEGRETISSIMO quelle informazioni la cui divulgazione potrebbe arrecare “danni di eccezionale gravità”; UE SEGRETO, quando la diffusione potrebbe “ledere gravemente gli interessi fondamentali”; UE RISERVATISSIMO, ove la divulgazione potrebbe “ledere gli interessi fondamentali”; UE RISERVATO, quando la diffusione recherebbe “pregiudizio agli interessi” (11) .
Un tale meccanismo di classificazione, volto ad assicurare una protezione delle informazioni graduata in relazione al danno che la loro diffusione potrebbe recare agli interessi degli Stati contraenti, è rinvenibile in numerosi trattati, accordi e memorandum d’intesa, recepiti nel nostro ordinamento con leggi di ratifica (12) .
L’interesse superiore tutelato è uno, ed attiene alla personalità interna ed internazionale di ciascuno Stato contraente (e/o dell’organizzazione internazionale), che potrebbe essere vulnerato dalla diffusione non autorizzata di notizie; l’intensità della tutela varia in funzione dell’entità del possibile danno che ne potrebbe derivare. La norma interna di tutela è già pronta, ed è l’art. 12 della legge n. 801/1977, che protegge, con il segreto di Stato, la diffusione di informazioni connesse ad accordi internazionali.
Volendo, a questo punto, tirare le fila di quanto sin qui argomentato, possiamo sostenere che:
il segreto di Stato è posto a tutela d’interessi e valori di rango costituzionale, preminenti rispetto ad altri parimenti tutelati a livello costituzionale, ma che dei primi costituiscono un aspetto, quale, ad esempio, il potere giurisdizionale;
in questa funzione di tutela di valori supremi il segreto di Stato ha la sua ragion d’essere e il suo limite;
la valutazione circa l’opposizione o meno del segreto di Stato ha natura squisitamente politica e, come tale, è insindacabile dal giudice;
l’autorità competente per tale valutazione va individuata nel Presidente del Consiglio, in relazione alle responsabilità attribuitegli dall’art. 95 della Costituzione;
l’attività svolta dal Presidente del Consiglio in tale ambito va tenuta nettamente distinta dagli interessi dell’Esecutivo in carica e dei partiti che lo sorreggono;
il controllo sul corretto svolgimento, da parte del Governo, di tale attività, avente carattere politico, è svolto dal Parlamento, che può far valere la responsabilità generale e istituzionale dell’Esecutivo, ex artt. 94 e 95 Cost., ed anche l’incriminazione dei suoi componenti, ex art. 96 Cost.;
la protezione assicurata dal segreto di Stato a informazioni, notizie, etc. non presuppone necessariamente un qualsivoglia intervento qualificatorio dell’autorità competente, essendo sufficiente che esse ineriscano alla sicurezza dello Stato. La legge, infatti, individua sia i valori e gli interessi oggetto di tutela, sia la condizione perché questa operi e cioè che la diffusione di tali informazioni, notizie, etc., sia idonea a recar danno a quei supremi valori ed interessi che si vuole proteggere;
in relazione al punto che precede, il segreto di Stato è categoria unica ed unitaria, in quanto finalizzata ad impedire il danno conseguente alla indebita diffusione, a prescindere dalla sua entità;
la classificazione scaturisce dall’apprezzamento che l’autorità competente effettua al fine di conferire a notizie, informazioni, etc. un livello di protezione adeguato all’entità del danno che ne deriverebbe dalla loro indebita diffusione; entità del danno a cui si ricollega, anche, una diversa graduazione delle sanzioni stabilite dal codice penale;
le informazioni, le notizie, etc,. per le quali sia stato definitivamente opposto il segreto di Stato, perdono valore processuale ove versate agli atti del fascicolo, con il conseguente obbligo della loro immediata restituzione.



La problematica del segreto di Stato assume profili di peculiare criticità nel contesto processuale penale, risentendo fortemente della sovrapposizione di norme nel tempo (13) e della perdurante carenza di una disciplina organica del segreto. Ci troviamo infatti alla presenza di un giudice che, da un lato, non può accedere né utilizzare informazioni e notizie coperte dal segreto di Stato, con un meccanismo preclusivo tale che, ove le notizie e le informazioni di che trattasi siano essenziali per il procedimento, è tenuto a dichiarare non doversi procedere per l’esistenza del segreto; dall’altro, invece, lo stesso giudice quelle informazioni e quelle notizie deve conoscere e valutare quali elementi costitutivi di un illecito penale, essenziali sia per la dichiarazione di colpevolezza, che per la determinazione della pena.
Dall’altra parte, invece, si pone l’Esecutivo, rectius il Presidente del Consiglio, che, nel momento in cui deve tutelare il segreto di Stato, vede la sua discrezionalità politica assoggettata al vaglio del potere giurisdizionale.
La prima disposizione del codice di procedura che viene in considerazione è l’art. 202, che pone, a carico dei pubblici ufficiali, pubblici impiegati e incaricati di pubblico servizio, l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti e circostanze coperti dal segreto di Stato. Ove il segreto venga opposto, il giudice ne dà comunicazione al Presidente del Consiglio per la conferma. Se il segreto viene confermato e la prova sia essenziale al processo, il giudice dichiara “non doversi procedere per la esistenza di un segreto di Stato”. Nel caso in cui il segreto non venga confermato, o la conferma non pervenga entro sessanta giorni dalla notifica, il giudice ordina al testimone di deporre. L’originario progetto di riforma, poi divenuto la legge n. 801/1977, prevedeva il divieto di esaminare ogni testimone, pubblico o privato. Ciò coerentemente con la ratio delle disposizioni a tutela del segreto, quella cioè di impedire ogni possibile forma di diffusione delle notizie ed informazioni coperte da segreto di Stato, a prescindere dalla natura del soggetto che le detenesse. Del resto, come osservato dalla dottrina, la rivelazione sarebbe preclusa anche in sede giudiziaria, in quanto integrerebbe comunque una della fattispecie punite dal codice penale (14) . Rispetto alla disposizione del previgente codice di procedura (art. 352), la soppressione del divieto di interrogare, da parte del giudice, configura un sostanziale indebolimento della possibilità di opporre il segreto (di Stato).
Da questa circostanza, autorevole dottrina ha fatto discendere due ordini di conseguenze: in primis, il segreto non può essere opposto da chiunque, ma solo dai soggetti individuati dalla disposizione; in secondo luogo, se il testimone depone commette reato, ma la “testimonianza è pienamente utilizzabile” (15) .
In relazione a tali conclusioni potrebbe prospettarsi l’ipotesi che, successivamente alla testimonianza, il Presidente del Consiglio opponga il segreto di Stato relativamente ai fatti, notizie ed informazioni oggetto di deposizione. In tale evenienza si porrebbe il quesito se la testimonianza ed il relativo verbale mantengano valore processuale. Ad avviso di che scrive la risposta dovrebbe essere negativa, considerato quanto sul punto affermato dalla Consulta. Infatti, essendo pacifico, in giurisprudenza, che i fatti e le notizie sono protette dal segreto di Stato ove rientrino tra le finalità contemplate dalla legge (artt. 1 e 12 L. n. 801/1977), a prescindere dalla formale, preventiva delibazione dell’autorità competente, logica conseguenza è che tale protezione sussiste ab origine e cioè prima e a prescindere dalla deposizione del teste.
Potrebbe al riguardo ipotizzarsi la seguente procedura: il Presidente del Consiglio oppone al giudice il segreto di Stato (da cui dovrebbe scaturire l’incriminazione del teste); ove il giudice non provveda ad espungere i relativi verbali d’interrogatorio, dovrà essere sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, il cui effetto, ove l’esito sia favorevole al Presidente del Consiglio, sarà quello di togliere valore processuale alla testimonianza.
Una simile impostazione consente, peraltro, di avanzare qualche perplessità anche sulle conclusioni a cui è pervenuta parte autorevole della dottrina circa l’utilizzabilità della testimonianza. Certamente la procedura da adottarsi dovrebbe essere quasi reinventata e chi scrive è consapevole che:
a) è molto improbabile che l’autorità giudiziaria si autolimiti;
b) la disposizione penale stabilisce che sia il teste ad opporre il segreto di Stato e non il giudice a rilevarlo d’ufficio. Non bisogna dimenticare, però, che qui sono in gioco primari valori costituzionali, dei quali la legge ordinaria disciplina solo le modalità di attuazione; la legge non sarebbe, pertanto, esente da possibili censure di legittimità costituzionale per non aver dato compiuta tutela a primari interessi costituzionali.
Si soggiunga poi che, come affermato dalla Corte Costituzionale, i rapporti tra poteri dello Stato debbono essere improntati a principi di legalità e di leale collaborazione. Inoltre, è postulato cardine del nostro ordinamento penale il dovere di compiere tutto ciò che è possibile per evitare che il reato pervenga a più gravi conseguenze; a ciò si aggiunga la previsione contenuta nell’art. 259,1° co., c.p., in relazione all’art. 256 c.p. e nell’art. 261, 4° e 5° co., c.p.
In tale quadro, non potrebbe fondatamente escludersi il dovere del giudice, che in sede d’interrogatorio venga a conoscenza di notizie o informazioni che la legge tutela con il segreto di Stato, di sospendere l’escussione del teste e chiedere al Presidente del Consiglio la conferma o meno del segreto. Una tale soluzione è confortata anche da quell’orientamento giurisprudenziale, già citato, secondo il quale l’accertamento giudiziario circa la natura delle notizie e informazioni è indispensabile per l’integrazione della fattispecie incriminatrice.
Tornando al citato art. 12 della l. 801/1977, va rammentato che esso non fissa alcuna distinzione tra segreto di Stato, notizie di vietata divulgazione e riservate (che, peraltro, il codice penale non contempla); esso non opera neanche differenziazioni in relazione alla capacità offensiva della diffusione di tali notizie, cioè all’entità del danno provocabile. Il segreto di Stato serve, pertanto, a prevenire sia il danno gravissimo, che quello lieve e tutte le graduazioni intermedie. Ai sensi della più volte citata legge 801, la decisione circa l’attribuzione della tutela e la determinazione del relativo livello di protezione è rimessa al Presidente del Consiglio, trattandosi di attività che implica l’esercizio di una discrezionalità politica.
A tanto si deve soggiungere che, al fine di sanzionare penalmente le violazioni del segreto di Stato, non è necessaria una preventiva delibazione dell’autorità competente, in quanto gli interessi tutelati, nonché tutte le condizioni necessarie per l’integrazione della fattispecie incriminatrice sono già contenuti nella legge.
D’altro canto, si è visto che il più recente ed affermato orientamento del giudice di legittimità, fatto proprio dalla Consulta, ha stabilito la comune natura e finalità del segreto di Stato e del divieto di divulgazione; mentre, la classificazione comunemente adottata a livello internazionale gradua la tutela accordata a notizie e informazioni, in funzione dell’entità del danno: il massimo corrisponde a “Segretissimo” e quello minimo a “Riservato”.
Conforta in ciò, oltre alla circostanza che il segreto di Stato è opponibile a prescindere da una preventiva delibazione, il fatto che, per i reati di cui agli artt. 261 e 262 c.p., la pena è fissata nel minimo e non nel massimo (che, quindi, è comune ad entrambi).
Diversamente opinando, si perverrebbe alla inaccettabile conclusione che il divieto di divulgazione coincide con il segreto d’ufficio, conoscibile dal giudice, in forza del rinvio all’art. 200, 2° co. c.p.p., contenuto nell’art. 201, 2° co. c.p.p.
Nel nuovo codice di rito è precluso al giudice il sindacato sulla fondatezza dell’opposizione; viceversa gli compete la valutazione circa l’essenzialità della prova ai fini della definizione del processo. Secondo la migliore dottrina: “Tale è quella prova, a carico o a discarico, il cui occultamento determina una deficienza tale del contesto probatorio da impedire al giudice di definire il giudizio e cioè di dirimere l’alternativa condanna-proscioglimento dell’imputato” (16) . Sempre in dottrina si è parlato di mancanza di una condizione di procedibilità, con la particolarità che essa non esclude a priori una declaratoria sulla regiudicanda, non essendo, il giudice, privato in astratto del potere di procedere. La legge sembra volta ad evitare che, a fronte di una prova solo temporaneamente inaccessibile, debba essere pronunciata una decisione irrevocabilmente definitiva (17) . Teoricamente, quindi, un secondo processo sarebbe possibile venuto meno l’ostacolo (opposizione del segreto di Stato) alla decisione di merito.
Altra disposizione processuale da prendere in considerazione è l’art. 204 c.p.p. “Esclusione del segreto”. Se si esamina l’articolo con riferimento all’art. 203, per la parte relativa al segreto sui nomi degli informatori, si rileva che la norma viene, sostanzialmente, “neutralizzata” dall’art. 66, 1° co., delle norme di attuazione al codice di procedura, ov’è stabilito che nei fatti, notizie e documenti indicati nell’art. 204, 1° co., “non sono compresi i nomi degli informatori”.
Secondo una parte della dottrina (18) “l’autorità giudiziaria ogni qualvolta si avveda che il segreto è adottato per coprire attentati contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato o fatti diretti a provocare la guerra civile o l’insurrezione armata contro i poteri dello Stato, in luogo di garantirne la difesa, ha il dovere di acquisire, anche attraverso l’esercito, il documento o di disporre che il teste deponga”. Naturalmente, la valutazione circa il carattere eversivo del reato non può essere che del giudice, al massimo di quello per le indagini preliminari.
In base alla disposizione in argomento, il giudice che rigetta l’eccezione di segretezza, nel presupposto che essa sia finalizzata a coprire un reato eversivo, deve darne comunicazione al Presidente del Consiglio, che può confermare il segreto se non ritiene che sussistano i presupposti di cui al primo comma del citato articolo 204. Viceversa, decorsi sessanta giorni senza che la conferma pervenga, il giudice può disporre il sequestro.
In conclusione, quindi, nei casi di segreto di Stato e di segreto d’ufficio, i pubblici ufficiali, i pubblici impiegati e gli incaricati di pubblico servizio, potranno opporre il segreto – relativamente al nome degli informatori – anche in presenza di reati diretti all’eversione dell’ordine costituzionale. Se è vero che la disposizione in argomento è volta a privilegiare la discrezionalità politica in materia, essa non può destare perplessità in relazione al disposto del secondo comma del più volte citato articolo 12 e, più in generale, di costituzionalità.
Meritevole di segnalazione è poi l’art. 256 c.p.p. “Dovere di esibizione e segreti”. La disposizione fissa un meccanismo analogo a quello previsto dall’art. 204. Ovviamente, l’avvio della procedura presuppone un’iniziale richiesta di esibizione (decreto di esibizione); il segreto deve essere opposto per iscritto. Secondo la giurisprudenza (19) , l’esibizione volontaria rende la documentazione utilizzabile ai fini probatori. In merito valgono le considerazioni svolte in relazione all’art. 202, cui si aggiunge la circostanza che, nel caso di specie, saremo sicuramente in presenza di un provvedimento di classificazione; un ulteriore elemento da considerare è che, secondo il principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione, il decreto di esibizione non è immediatamente gravabile. Un problema aperto è inoltre quello dell’opponibilità del segreto di Stato relativamente ai corpi di reato.
L’esame delle disposizioni del Codice penale, d’interesse ai fini della presente trattazione, deve prendere le mosse dall’art. 255 c.p., che sanziona la “Soppressione, falsificazione o sottrazione di atti, documenti concernenti la sicurezza dello Stato”. Per la consumazione del reato è sufficiente la sola sottrazione, anche temporanea, non essendo necessaria la propagazione delle notizie (20) .
Il successivo art. 256 c.p. configura il reato di “Procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato”. Secondo i giudici di legittimità (21) , il concetto di segreto, in senso giuridico, comporta una relazione materiale o personale ed indica il limite posto da una autorità, giuridicamente competente, alla conoscibilità di un fatto, di un atto o di una cosa, destinata a rimanere occulta ad ogni persona diversa da quelle che legittimamente conoscano il fatto, l’atto o la cosa, mentre il concetto di notizie riservate implica un provvedimento dell’autorità competente che ne abbia vietato la divulgazione; esse, ancorché non segrete, ma conoscibili in un determinato luogo o entro una determinata cerchia di persone, costituiscono pur sempre notizie per le quali lo Stato non ha rinunziato alla potestà di circoscrivere la pubblicità al minimo indispensabile. Oggetto della tutela penale è in ogni caso l’interesse relativo alla personalità internazionale e interna dello Stato, in quanto è opportuno evitare che le notizie riservate o segrete, concernenti la sicurezza o altro interesse politico interno o internazionale dello Stato, vengano a cognizione di persone non autorizzate, di talché il bene giuridico protetto viene leso quando l’azione è causalmente adeguata a produrre la lesione di quel bene. Tale ricostruzione legittima, quindi, la punizione del procacciamento delle notizie a prescindere dall’uso o dalla diffusione.
Il distinguo operato dalla Cassazione tra il concetto di “segreto” e quello di “notizie riservate” non appare convincente nella misura in cui tanto per il segreto che per le notizie riservate la richiamata giurisprudenza presuppone, comunque, un provvedimento dell’autorità competente che, come abbiamo visto, per l’orientamento più recente potrebbe anche non esserci.
Lo stesso codice penale, poi, non conosce la categoria delle notizie riservate, bensì solo quelle di vietata divulgazione, ed è, altresì, pacifico che la nozione di segreto di Stato è contenuta aliunde rispetto al codice penale, e cioè nella l. n. 801/1977.
Il procacciamento di notizie, siano esse segrete o di vietata divulgazione, viene sanzionato in un’unica disposizione (l’art. 256), perché attiene all’illecita acquisizione di informazioni e/o notizie comunque attinenti alla sicurezza dello Stato. Quando si tratta, invece, di sanzionarne la diffusione, il Legislatore adotta due differenti disposizioni (gli artt. 261 e 262) in relazione all’entità del danno arrecato ai valori e agli interessi di cui all’art. 12, che dalla diffusione potrebbe derivare.
Continuando nella disamina del codice penale, l’art. 257 sanziona lo “Spionaggio politico o militare”. La giurisprudenza (22) , identifica l’interesse militare con l’interesse alla sicurezza dello Stato (Se, invece, i fatti ex se idonei allo spionaggio, non sono univocamente diretti ad esso, la disposizione applicabile è l’art. 260 c.p., che li sanziona come indizi di possibile scopo spionistico).
Il successivo art. 258 c.p. “Spionaggio di notizie di cui è vietata la divulgazione” configura un reato che la giurisprudenza (23) ha inquadrato tra i reati di pericolo che non richiedono il raggiungimento dello scopo, con la conseguenza che non sarebbe configurabile il tentativo. L’elemento materiale (24) sarebbe costituito dal procacciamento di notizie riservate, unitamente alla circostanza che di tali notizie l’autorità competente abbia vietato la divulgazione. Circa l’elemento soggettivo, sarebbe necessaria la volontà cosciente di procurarsi, a scopo di spionaggio, notizie riservate. Non sarebbe, invece, richiesta la scienza che trattasi di notizie di cui è stata vietata la divulgazione; poiché il vincolo viene imposto con atto normativo, esso entra a far parte della previsione penale che, in quanto tale, non ammette ignoranza.
Sempre in giurisprudenza (25) è stato ritenuto che le notizie riguardanti cose, fatti e atti conosciute in un determinato ambito spaziale o personale, ma che, comunque, nell’interesse dello Stato, non possono essere divulgate non rientrano nella nozione di segreto di cui all’art. 12 della legge n. 801/1977.
Il successivo art. 259 c.p. contempla l’agevolazione colposa relativamente ai reati previsti e puniti dagli artt. 255, 256, 257 e 258 c.p.
Particolare rilievo assume ai fini della nostra disamina l’art. 261 c.p. che sanziona la “Rivelazione di segreti di Stato”. Non può non evidenziarsi la circostanza che tale disposizione richiama espressamente l’art. 256, che fa riferimento sia alle notizie che debbono restare segrete nell’interesse dello Stato, o nell’interesse politico interno o internazionale, sia alle notizie di vietata divulgazione. Un ulteriore elemento di conferma dell’unitarietà della nozione di segreto di Stato – nell’ambito del quale è poi individuabile una graduazione in relazione all’entità del danno – si trae dal titolo della rubrica dell’art. 261.
L’art. 262 c.p. configura poi il reato di “Rivelazione di notizie di cui è stata vietata la divulgazione”.
Tornando, brevemente, all’art. 255, è importante evidenziare che la più recente giurisprudenza (26) afferma che ai fini della configurabilità del reato di cui al citato articolo, non è necessaria la preventiva classificazione dell’atto o del documento, in quanto non prevista dal più volte citato art. 12. In tale evenienza la natura dell’atto o del documento dovrà essere accertata dal giudice.
Torniamo, quindi, al discorso originario: il segreto di Stato è categoria unitaria. Eventuali distinzioni operano solo all’interno di esso, in relazione all’entità del danno.
Infatti, ove il provvedimento dell’autorità competente manchi, l’accertamento ai fini dell’integrazione della fattispecie incriminatrice sarà effettuato dal giudice; ove, diversamente, esista il provvedimento, di questo si terrà conto nella valutazione del reato.
Per quanto attiene il momento in cui le notizie e le informazioni perdono la loro offensività, è avviso della giurisprudenza (27) che sia individuabile allorchè esse divengano di pubblico dominio. Considerato, poi, che i reati in esame sono, prevalentemente, reati di pericolo, non ha alcuna valenza il fatto che le notizie siano note a persone autorizzate, anche se in un momento determinato, in quanto queste hanno, comunque, la necessità di conoscere per adempiere ai compiti affidati dallo Stato. Il dolo è escluso nel caso in cui l’agente sia convinto che trattasi di notizie di pubblico dominio.
Come osservato all’inizio del presente paragrafo, l’assetto processuale penale sembra contenere una contraddizione: da un lato, al giudice può essere opposto il segreto di Stato, dall’altro il giudice per applicare la sanzione penale in materia deve necessariamente venire a conoscenza di informazioni e notizie coperte dal segreto.
Si tratta, invero, di una contraddizione solo apparente. Come ha infatti chiarito la Consulta (28) , quando si procede per i reati in esame “il segreto è stato già violato, ed il giudizio è rivolto alla punizione del colpevole; ed anche nel caso di tentativo, il segreto non è più tale, perché la stessa contestazione dell’accusa implica che i fatti, cui il segreto si riferisce, siano noti”. Laddove quando si procede ai sensi delle disposizioni del codice di procedura penale “il presupposto è che la dichiarazione o la esibizione delle cose o del documento siano state rifiutate adducendo il segreto: il quale, perciò, è ancora intatto: Di qui, ..., l’esigenza che non si proceda senza l’autorizzazione del... della quale, invece, è logico che si prescinda nei casi ... di rivelazione e spionaggio”.
Possiamo ora cominciare a tirare le fila di quanto sin qui illustrato. Per quello che attiene alla nozione di segreto di Stato la giurisprudenza “avanza in ordine sparso”: da un canto (29) afferma che la tutela del segreto di Stato prescinde dalla preventiva valutazione dell’autorità competente, ma, un attimo dopo, distingue tra atti, documenti e notizie oggettivamente segreti e quelli la cui segretezza viene affermata con provvedimento, quasi che sia possibile accordare la tutela in argomento a atti documenti e notizie che non rientrino tra le finalità della legge; come pure, la medesima Cassazione, nella sentenza 10 dicembre 2001 - 29 gennaio 2002, n. 3348, conclude che le notizie coperte da segreto di Stato e quelle di vietata divulgazione attengono tutte alle medesime categorie d’interessi, conclusione, questa, che conforta la tesi di chi scrive circa l’unitarietà della nozione.
Ancora, se si aderisse all’assunto che esclude la necessità di una formale delibazione dell’autorità competente ai fini della tutela del segreto di Stato, l’estensione del sindacato giurisdizionale, oltre al carattere non eversivo, anche alla legittimità del provvedimento, rispetto alle finalità della legge, apparirebbe eccessivo, finendo per concretarsi in un controllo sull’esercizio della discrezionalità politica.
Conclusivamente, alla luce di quanto sin qui detto e della più recente giurisprudenza della Cassazione, non appare condivisibile la tesi propugnata da una certa giurisprudenza di merito (30) circa la sussistenza di due categorie di atti: quelli coperti da segreto di Stato e quelli di vietata divulgazione. Militano a favore di una diversa prospettazione gli artt. 1, 12 e 18 della legge n. 801/1977 che, sopravvenuti alle disposizioni penali, ne impongono una diversa lettura, in quanto i beni oggetto di tutela vengono collocati in un complesso normativo al di fuori del codice penale. Ne consegue che le disposizioni ivi contemplate debbono ritenersi tutte riferite al segreto di Stato.
L’art. 12, infatti, non opera alcun distinguo circa l’entità del danno conseguente alla illecita diffusione. Inoltre, la più recente giurisprudenza appare concorde sia nel ritenere che il segreto di Stato ed il divieto di divulgazione siano preordinati alla medesima finalità, sia nell’affermare che la tutela delle notizie prescinda da una preventiva delibazione dell’autorità competente, con la conseguenza che sarebbe ben difficile, per non dire impossibile, operare una distinzione tra le due categorie se non in relazione all’entità del danno.
Inoltre, la dizione “Autorità competente”, utilizzata dalle disposizioni penali e letta alla luce della disciplina dettata dalla legge n. 801/1977, non può essere riferita ad altri se non al Presidente del Consiglio.
Un’ulteriore riflessione merita ancora il 2° comma dell’art. 256 c.p., che individua, fra le notizie che “debbono rimanere segrete”, anche quelle contenute in atti del Governo, che l’Esecutivo non pubblica per ragioni d’ordine politico, interno o internazionale. Ai sensi dell’art. 18 della legge n. 801/1977, tali notizie rientrano a pieno titolo nella definizione di segreto di Stato.
Il bene protetto è l’interesse politico e i motivi debbono essere d’ordine (sempre politico) interno o internazionale. La protezione accordata alle notizie di governo non pubblicizzate non è solo quella dell’art. 256, bensì quella prevista da tutte le disposizioni contenute nel Titolo I (Libro II). Affinché tali notizie siano tutelate non occorre alcun provvedimento espresso (che, quindi, potrebbe intervenire solo successivamente, ove si verifichino, ad esempio, le condizioni per opporre il segreto di Stato), ma è sufficiente la non pubblicazione degli atti (o di parte di essi) che contengono le notizie in parola; cioè la loro divulgazione attraverso i canali d’informazione di cui l’Esecutivo dispone.
A supporto della tesi sostenuta da chi scrive circa l’unitarietà della nozione valga il richiamo all’ultimo comma dell’art. 256, che prevede, nel caso che dal procacciamento delle notizie sia derivato un danno specificamente individuato (“... ha compromesso la preparazione o l’efficienza bellica dello Stato.”), la pena è unica, ed è quella massima (l’ergastolo), a nulla rilevando la distinzione tra notizie segrete ovvero di vietata divulgazione.
La tesi che qui si contesta avrebbe un effetto deflagrante ove applicata pedissequamente. Si pensi al caso del rinvenimento di documenti privi di classificazione, ma contenenti notizie e/o informazioni in grado, in una certa misura, di arrecare danno alla sicurezza dello Stato. Attenendosi ad un’interpretazione formale, in assenza del provvedimento dell’autorità competente gli eventuali responsabili non potrebbero essere perseguiti né ex art. 256, né ex art. 262, ma solo ai sensi dell’art. 261 ove ne sussistano i presupposti (cioè le notizie siano da considerarsi segrete e non di vietata divulgazione ed al procacciamento sia seguita la diffusione); il procacciamento, infatti, in assenza di un formale provvedimento, non sarebbe configurabile.
Né varrebbe opporre a ciò il potere di accertamento del giudice, in quanto questo atterrebbe alla sola categoria del segreto di Stato.
Se si accede, invece, alla tesi che il segreto di Stato è categoria unitaria, che ricomprende in sè anche le notizie di vietata divulgazione, quale graduazione della tutela, dell’entità del danno e della conseguente pena, allora la chiave di lettura è molto più agevole e logica e risulta facile rinvenire il nesso che lega le disposizioni penali in considerazione. Congruente è la circostanza che, relativamente agli artt. 261, 262 c.p., il Legislatore penale abbia fissato nel minimo e non nel massimo la pena (opera, quindi, l’art. 23 c.p.).
D’altronde l’art. 261 c.p., nel richiamare l’art. 256, non utilizza la dizione “notizie che ... debbono rimanere segrete”, bensì l’altra “di carattere segreto”, una accezione quindi più ampia che sembra potersi riferire più correttamente a tutte le notizie di cui all’art. 256 c.p.
Il procacciamento di notizie viene sanzionato dalla disposizione in argomento in funzione dell’entità del danno che ne deriva. Se così non fosse non vi sarebbe alcuna ontologica differenza tra le notizie di vietata divulgazione e la violazione del segreto d’ufficio (a prescindere dal fatto che, quest’ultimo, è un reato proprio), ove pure si fa riferimento a notizie segrete; ancora, la tutela accordata al segreto d’ufficio sarebbe molto più ampia e completa rispetto a quella prevista per il divieto di divulgazione, in quanto solo per il secondo e non per il primo è prescritto il provvedimento dell’autorità competente che vieta la divulgazione.
In realtà, sempre a conforto della tesi propugnata, assume rilievo dirimente l’agevole constatazione che, mentre l’art. 262 c.p. è collocato nel Libro II, Titolo I, capo primo, “Dei delitti contro la personalità internazionale dello Stato”, l’art. 326 c.p. è collocato nel Titolo II, stesso libro, “Dei delitti contro la pubblica amministrazione”.
Occorre, da ultimo, richiamare l’attenzione sulla circostanza che la nozione di “notizie delle quali l’autorità competente ha vietato la divulgazione” è molto più ampia delle cd. “notizie riservate”, di cui parla la giurisprudenza . La nozione codicistica appare, invero, speculare alla classificazione di cui al DPCM 11 aprile 2003 (“Norme di sicurezza per la tutela della informazioni UE classificate, di attuazione della Decisione della Commissione delle Comunità europee del 29 novembre 2001”) ove ciascun livello di classifica corrisponde ad una diversa entità del danno cagionabile ed equivalente livello di tutela.



Ad una prima lettura, il rapporto tra il “segreto di Stato” e la legge 7 agosto 1990, n. 241 (“Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi”) non sembra mostrare aspetti di problematicità, se si considera che l’art. 24, 1° co., della citata legge recita: “Il diritto di accesso è escluso per i documenti coperti da segreto di Stato ai sensi dell’art. 12 della legge 24 ottobre 1977, n. 801 …”.
Invero, problemi di armonizzazione tra le rispettive normative esistono ed anche di rilievo, se la Commissione di cui all’art. 27 della legge in esame ha affermato: “L’esclusione tout court del diritto di accesso ai documenti relativi alla NATO e ai documenti preparatori di negoziati multilaterali è illegittima, perché troppo generica e disarticolata” (31) . Ed ancora, in sede di parere, ha chiarito: “Gli atti concernenti la concessione del nulla osta di segretezza vanno espunti dalla categoria degli atti sottratti all’accesso per la salvaguardia della riservatezza dei terzi, persone, gruppi e imprese e vanno inseriti nella categoria degli atti inaccessibili per la sicurezza dello Stato”.
Naturalmente, l’esame della legge n. 241/1990 sarà qui circoscritto alle disposizioni strettamente afferenti all’oggetto della presente trattazione e cioè quelle del CAPO V (“Accesso ai documenti amministrativi”) e successive.
Un ruolo centrale assume in tale ambito l’art. 24, che individua i casi di esclusione dal diritto di accesso, le modalità ed i limiti del differimento, nonché gli ulteriori atti che devono essere adottati perché il diritto possa diventare operativo.
Con esso si recupera la nozione del segreto, nelle sue varie manifestazioni, alla cui soglia si arresta il diritto di accesso. Tra i limiti apposti da tale articolo al diritto di accesso il primo e certamente il più importante è costituito dal segreto di Stato e dai casi di segreto o di divieto di divulgazione altrimenti previsti dall’ordinamento (art. 24, 1° comma). Tale area di inaccessibilità risulta poi ampliata per effetto delle previsioni di cui all’art. 24, 2° co. e dell’art. 24, 4° co. che demandano, rispettivamente al Governo e alle singole Amministrazioni, l’emanazione di decreti diretti ad indicare gli altri casi di esclusione del diritto di accesso al fine di salvaguardare valori, taluni di rilievo costituzionale, che la legge stessa indica (la sicurezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali; la politica monetaria e valutaria; l’ordine pubblico e la prevenzione e repressione della criminalità; la riservatezza di terzi, persone, gruppi ed imprese).
In attuazione del citato art. 24, co. 2 è stato adottato il DPR 27 giugno 1992, n. 352, recante il “Regolamento per la disciplina delle modalità di esercizio dei casi di esclusione del diritto di accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell’articolo 24 comma 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241, recante nuove norme in materia di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti amministrativi”. Di rilievo per la presente trattazione l’art. 8, che fissa i criteri che le amministrazioni debbono seguire ai fini dell’emanazione dei regolamenti del citato art. 24, co. 4°. Condizione imprescindibile per la sottraibilità dei documenti all’accesso è che essi siano “suscettibili di recare pregiudizio concreto agli interessi” indicati nell’art. 24. Il comma richiama in toto l’art. 24, ma deve ritenersi che esso non faccia riferimento al primo comma del medesimo articolo, in quanto il segreto di Stato è escluso direttamente dal Legislatore. Diversamente opinando, l’art. 8 del decreto presidenziale avrebbe implicitamente e parzialmente abrogato l’art. 12 della legge n. 801/1977, in quanto al criterio fissato da tale ultima disposizione, cioè l’idoneità a “recare danno”, avrebbe sostituito quello del “pregiudizio concreto”. A tacer d’altro, osta ad una simile prospettazione l’art. 17 della legge n. 400/1988.
La disposizione in esame stabilisce, altresì che: “I documenti contenenti informazioni connesse a tali interessi sono considerati segreti solo nell’ambito e nei limiti di tale connessione”. Al riguardo sovviene la considerazione che, se sono segreti i documenti connessi, a fortiori lo saranno quelli principali; inoltre, e con richiamo a quanto osservato nel corso del precedente paragrafo, oltre al segreto di Stato, che è escluso, avremmo anche il segreto ex 241 – che, per il momento, non si vuole qualificare – le notizie di vietata divulgazione e le notizie riservate. È evidente che se cosi fosse saremmo in presenza di una incontrollata proliferazione e non di una razionalizzazione di documenti la cui divulgazione non è consentita.
Il quinto comma dell’articolo in argomento stabilisce, poi, i criteri e le condizioni che possano motivare un diniego d’accesso. In particolare, la lett. a), dopo aver escluso dal campo di applicazione le ipotesi disciplinate dall’art. 12 della legge 801, afferma che può essere inibito l’accesso a quei documenti dalla cui divulgazione “possa derivare una lesione, specifica e individuata, alla sicurezza e alla difesa nazionale, all’esercizio della sovranità nazionale e alla continuità e alla correttezza delle relazioni internazionali, con particolare riferimento alle ipotesi previste nei trattati e nelle leggi di attuazione,”. La lett. b) consente di escludere l’accesso ai documenti riguardanti la politica valutaria e monetaria, quando da ciò possa conseguire un “pregiudizio”; mentre la lett. c), riguarda tutto ciò che attiene all’ordine pubblico.
Premessa questa breve ricognizione del quadro normativo e passando ad un approfondimento del rapporto tra segreto di Stato e legge n. 241/1990, può osservarsi che il segreto di Stato deve ritenersi escluso dal campo di applicazione della legge n. 241/90, non tanto o, quanto meno, non solo perché il 1° comma dell’art. 24 contiene un’esplicita disposizione in tal senso, quanto e soprattutto perché il segreto di Stato, rectius la sua opposizione, è espressione di esercizio della discrezionalità politica, mentre la legge n. 241/90 disciplina l’esercizio della discrezionalità amministrativa, in relazione a quello che possiamo finalmente definire il “segreto amministrativo”. Una tale conclusione sembra essere confortata anche dall’orientamento della Commissione, che ha avuto occasione di affermare la natura politica del Consiglio dei ministri, escludendo dal diritto di accesso i verbali, relativamente alle parti recanti le opinioni espresse dai singoli componenti del Governo; ciò ancorché tali opinioni siano pur sempre finalizzate, anche se non ne entrano a far parte, all’adozione di atti di alta amministrazione e, in quanto tali, accessibili (P97471Q-III 118, vol. cit.).
Quale esercizio di discrezionalità amministrativa, essa è assoggettata alla disciplina della legge, sindacabile e giustiziabile; sotto il profilo della disciplina legale, tale discrezionalità è circoscritta, prevalentemente, ad una fase antecedente (predisposizione dei regolamenti di cui all’art. 24, 4° co.). Osserva, infatti, il Consiglio di Stato: “L’indicazione degli atti sottratti all’accesso (…) è indice che la pubblicità di quei documenti – secondo un giudizio di prognosi ex ante e secondo l’id plerumque accidit – è idonea a recare pregiudizio agli interessi pubblici indicati nella norma primaria e ciò secondo una valutazione ampiamente discrezionale che, impigendo al merito dell’azione amministrativa, sfugge al sindacato di legittimità, salva la sua arbitrarietà, irragionevolezza e illogicità (32) ”.
Il richiamo dell’art. 24, 1° co., alla legge n. 801/1977 appare inutile: in primo luogo, perché assieme ad essa vengono richiamate altre due leggi che nulla hanno a che vedere con le finalità, i valori e gli interessi che la legge 801 intende tutelare; in secondo luogo, in quanto è interpretazione pacifica che anche altre forme di segreto, disciplinate dall’ordinamento, ma non espressamente richiamate dalla legge 241, sono, comunque, escluse dal diritto di accesso (segreto professionale, segreto istruttorio, etc.). Per questi motivi la legge 241 ingenera confusione in quanto: da un lato, sembra voler dare attuazione all’art. 18 della legge n. 801/1977, dall’altro finisce per incrementare, disorganicamente, le ipotesi di segreto amministrativo.
Un ulteriore elemento che porta ad escludere qualsivoglia concettuale commistione tra il diritto di accesso e il segreto di Stato, deriva dal fatto che la legge in esame ha inteso configurare un “diritto soggettivo all’informazione” , mentre la legge n. 801, ha, tra l’altro, la finalità di inibire la diffusione di documenti, atti, notizie, attività “e ogni altra cosa”, che sia idonea a recare danno a primari interessi e valori costituzionali, ponendosi, così, come naturale limite all’informazione. D’altro canto, il diritto soggettivo, così configurato, non incontra alcun limite nell’utilizzazione delle informazioni acquisite con l’accesso (33) ; né per il suo esercizio occorre l’attualità dell’interesse (34) .
Nonostante l’orientamento sin qui espresso, è comunque innegabile l’esistenza di problematiche d’interferenza tra le due discipline, in presenza di una linea estremamente labile, visto che gli atti della pubblica amministrazione, ancorché esercizio di un ampio potere discrezionale, sono pur sempre assoggettati a un sindacato giurisdizionale, quanto meno sotto il profilo della arbitrarietà, irragionevolezza e illogicità e, quando espressione di un potere regolamentare, ad una verifica di conformità alla fonte di rango superiore che tale potere legittima.
Il punto di frizione più evidente tra le due normative è costituito dal citato art. 24, secondo comma, lett. a), in relazione agli interessi tutelati della legge n. 801/77 (in realtà e sia pur con un iter interpretativo più articolato, analogo problema potrebbe porsi anche per gli interessi di cui alle lettere b e c). Né, ad avviso di chi scrive, è di alcun ausilio l’art. 8 del DPR n. 352/1992, che, per certi aspetti e sotto tale specifico profilo, non sembra soddisfare le finalità perseguite dal Legislatore del 1990.
Una chiave di lettura, a mente di quanto disposto dall’art. 12 della legge 801, potrebbe essere che i documenti riguardanti la segretezza, la difesa nazionale e le relazioni internazionali, godano, comunque, della tutela minima accordata dal segreto amministrativo cioè l’esclusione dal diritto di accesso; quando, poi, dalla diffusione delle notizie in essi contenute ne possa derivare un danno, ex artt. 1 e 12, legge n. 801/1977, allora la tutela da accordarsi, secondo una valutazione di tipo politico che sfugge alle singole amministrazioni, sarà quella del segreto di Stato.
Ma una tale chiave di lettura viene immediatamente contraddetta dall’art. 8 del DPR, che condiziona l’inaccessibilità a “un pregiudizio concreto”; e ancora, relativamente all’ipotesi sub a), ad “una lesione specifica e individuata (…)”. La distinzione tra una tale terminologia e la parola “danno”, utilizzata dalla legge 801, è quanto mai ardua e, soprattutto, si rischia di attribuire alle singole amministrazioni, e non al Capo del governo, il potere di apporre il segreto di Stato e la correlativa discrezionalità politica.
Né la differenza può essere colta sotto il profilo della genericità dell’uno rispetto alla specificità dell’altro: considerata la regola che il più comprende il meno, è evidente che la parola “danno” comprende sia quello generico che quello specifico; come pure non percorribile appare la via di distinguere in relazione alla potenzialità offensiva del danno, visto che nessuna indicazione in tal senso è desumibile dalle disposizioni in parola e, circostanza assorbente, che enttrambi si concretizzano in un giudizio prognostico.
Né alcun reale ausilio interpretativo può essere desunto dal DPCM 10 marzo 1999, n. 294 “Regolamento recante norme per la disciplina delle categorie di documenti in possesso degli organi di informazione e di sicurezza sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell’articolo 24, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241”. Unico elemento rinvenibile (art. 1) e che conforta quanto osservato nel paragrafo che precede è che il DPCM in questione esclude espressamente dal campo di applicazione della legge n. 241/90 anche i documenti contenenti notizie informazioni e quant’altro di vietata divulgazione, confermando, quindi, l’idea che il divieto di divulgazione abbia natura e funzione diversa dal segreto amministrativo e attenga, invece, al segreto di Stato.
Volendo, conclusivamente, verificare la correttezza di una ipotesi di compatibilità delle due discipline, fondata sul presupposto che esse sono espressione di forme di discrezionalità ontologicamente differenti, si deve ritenere che le disposizioni in materia di segreto di Stato si sovrappongano e superino quelle sul segreto amministrativo. Sotto il primo profilo, in quanto ove intervenga il positivo apprezzamento dell’autorità competente e i documenti, ancorché già dichiarati inaccessibili, o il cui accesso sia stato differito, o anche quelli sui quali alcun vincolo o limitazione sia stato apposto, sono comunque tutelati dal segreto di Stato. Sotto il secondo profilo, in quanto ove nel documento, a prescindere da ogni positivo apprezzamento dell’autorità competente, sia rinvenibile l’esigenza di tutelare le finalità di cui alla legge n. 801/1977, le informazioni e le notizie in esso contenute saranno, in ogni caso, assoggettate alla tutela accordata dal segreto di Stato.
Una tale soluzione appare rispettosa dell’orientamento della Cassazione (35) , fatto proprio dalla Consulta (36) e consente altresì, sotto il profilo penale, di sanzionare eventuali violazioni in base alle fattispecie contemplate dal Libro II, Titolo I (“Dei delitti contro la personalità dello Stato”), e non in relazione a quelle del Titolo II (“Dei delitti contro la pubblica amministrazione”), stesso libro, del Codice penale, stante la novella introdotta dall’art. 18 della legge n. 801/1977.
Sotto altro profilo, la soluzione prospettata consente di procedimentalizzare, sulla base dell’esistente, anche il rapporto tra il sistema normativo che disciplina il segreto di Stato e quello che disciplina il segreto amministrativo e il diritto di accesso ai documenti, ed in modo particolare gli organi all’uopo istituiti.
Ora, abbiamo visto che è principio generale dell’ordinamento che l’unica autorità legittimata a confermare definitivamente il segreto di Stato è il Presidente del Consiglio; a ciò occorre soggiungere che stante l’affermata legittimità del sistema delle deleghe, gli organismi coinvolti possono apporre il segreto di Stato, o meglio “classificare” le notizie o le informazioni, in guisa tale da garantirgli la protezione adeguata alla loro dannosità e una circolazione limitata.
Quanto sin qui argomentato vale, a parere di chi scrive, a salvare la complessiva coerenza delle due normative, definendone gli ambiti di operatività; diversamente, si finirebbe per svuotare di contenuto e frustrare le finalità dell’istituto del segreto di Stato.
I dubbi interpretativi e applicativi che le disposizioni in parola suscitano e che si è tentato di dipanare nell’approfondimento appena svolto non sembra possano avere una soluzione a breve. Lo stesso DDL presentato dal Governo (37) non contiene infatti alcuna norma chiarificatrice nel senso. Senza volersi soffermare sull’argomento, preme solo richiamare l’attenzione sul fatto che il nuovo art. 24 (come sostituito dall’art. 12 del DDL) se da una parte, e molto opportunamente, richiama l’intera legge n. 801/1977 e non solo l’art. 12, dall’altra sembra rendere di portata generale, rispetto alle disposizioni vigenti, il diritto di accesso (7° comma) per fini di giustizia a tutti i documenti amministrativi, ivi compresi quelli attinenti alla difesa nazionale, all’esercizio della sovranità nazionale, etc.



Il rapporto tra la normativa sul segreto di Stato e quella in materia di protezione dei dati personali è, per certi aspetti, semplice e, per altri, più complesso.
Semplice, in quanto non può non prendersi atto di determinate scelte del Legislatore, ed, in particolare, dell’assoggettamento del segreto di Stato, sia pure limitatamente ed esclusivamente per la tutela di determinati valori, ad una figura nuova rispetto a quelle contemplate dalla legge n. 801/1977, quale quella del Garante per la protezione dei dati personali.
Complesso, perché si ripropone il problema della compatibilità con il nostro sistema ordinamentale dell’istituzione di soggetti pubblici, inseriti nell’amministrazione, sia pure connotati da un’ampia autonomia ed indipendenza, a cui vengono affidati compiti di tutela di diritti fondamentali o di vigilanza; ed inoltre perché si assiste a un ribilanciamento di interessi e valori, compiuto con lo strumento del decreto delegato, che pone problemi di compatibilità con la legge di delega (l. 24 marzo 2001, n. 127) e, più in generale, con valori e interessi primari tutelati dalla Costituzione.
Naturalmente, si fa riferimento al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (38) , con il quale è stato emanato il “Codice in materia di protezione dei dati personali”.
La disposizione che viene in rilievo è l’art. 58, limitatamente ai commi 1° e 3° e, con non lievi difficoltà interpretative, anche al 4° co.
Ai sensi di tale norma, sono, applicabili ai trattamenti effettuati dagli Organismi d’intelligence i seguenti articoli del suddetto Codice: 1 (“Diritto alla protezione dei dati personali”), 2 (“Finalità”), 3 (“Principio di necessità del trattamento”), 4 (“Definizioni”), 5 (“Oggetto e ambito di applicazione”), 6 (“Disciplina del trattamento”), 11 (“Modalità del trattamento e requisiti dei dati”), 14 (“Definizioni dei profili e personalità dell’interessato”), 15 (“Danni cagionati per effetto del trattamento”), 31 (“Obblighi di sicurezza”), 33 (“Misure minime”), 58 (omissis), 154 (“Compiti del Garante”), 160 (“Particolari accertamenti”) e 169 (“Misure di sicurezza”).
In relazione a quanto accennato all’inizio del paragrafo, particolare rilievo assume il richiamo operato, ai fini dell’applicabilità dal predetto art. 58, 1° co., agli articoli da 1 a 6 del Codice e cioè ai principi generali contenuti nel “TITOLO I” della “PARTE I - DISPOSIZIONI GENERALI”, richiamo non presente nell’art. 4, 2° co., in relazione al 1° co., lett. b), della legge n. 675/1996 (39) . Il quid novi introdotto dal Codice assume una maggiore valenza, ove si consideri che l’art. 1 (40) del medesimo è disposizione nuova, anche rispetto alla normativa comunitaria medio tempore intervenuta (41) .
Il richiamo in parola sembra voler determinare un nuovo e diverso bilanciamento tra quei primari interessi costituzionali, individuati dalla Consulta a partire dalla sentenza n. 86/1977, ed altri, parimenti di rango costituzionale, ma non attinenti all’esistenza stessa dello Stato. A margine, non può non notarsi che il segreto di Stato, in quanto attinente all’esercizio della discrezionalità politica, non può che essere soggetto, in via esclusiva, alla vigilanza e al controllo del Parlamento.
Disposizione sicuramente più importante, ai fini di quanto qui discusso, è l’art. 160 (42) (“Particolari accertamenti”). L’articolo in esame stabilisce, al 1° co., che gli accertamenti riguardanti i trattamenti di dati personali, indicati nella Parte II, Titoli I, II e III, ivi compresi, quindi, quelli effettuati dagli Organismi d’intelligence, sono compiuti tramite “un componente designato dal Garante”; mentre il 3° co. ne esclude la delegabilità. Il 4° co. del medesimo art. 160, stabilisce espressamente: “Per gli accertamenti relativi agli organismi d’informazione e di sicurezza e ai dati coperti da segreto di Stato il componente designato prende visione degli atti e dei documenti rilevanti e riferisce oralmente nelle riunioni del Garante.”.
La disposizione da ultimo riferita, fissa, quindi, una procedura ad hoc, rispetto a quella generale prevista dal terzo comma: in primo luogo, perché il componente del Garante non può acquisire gli atti e i documenti, ma solo prendere “visione” di quelli “rilevanti”; in secondo luogo, perché per gli accertamenti presso gli organismi d’intelligence il “componente designato” non può farsi assistere da nessuno.
Confortano una simile interpretazione, oltre al tenore letterale del quarto comma in discorso, anche le considerazioni che seguono.
L’art. 156, 8° co., stabilisce che: “Il personale addetto all’Ufficio del Garante ed i consulenti sono tenuti al segreto su ciò di cui sono venuti a conoscenza, nell’esercizio delle proprie funzioni, in ordine a notizie che devono rimanere segrete”. Un tale obbligo al segreto non vale, ad avviso di chi scrive, a legittimare la conoscenza di notizie e informazioni protette dal segreto di Stato.
La disposizione, sicuramente, sta a significare che anche il personale di cui al 5°co. e i consulenti di cui al 7° co., hanno l’obbligo del segreto di ufficio (per i secondi tale obbligo si assommerebbe, nella maggior parte dei casi, a quello professionale) e ancora, che tale obbligo si estende a tutte le informazioni (ad esempio: quelle relative al segreto professionale, segreto istruttorio, alle privative industriali, ai dati sensibili, etc.) la cui conoscenza sia stata, comunque, occasionata dal rapporto (d’impiego, professionale, di consulenza, collaborazione, etc.), con il Garante, ma non certamente, lo si ripete, per l’accesso a documenti, atti, informazioni, notizie e quant’altro, coperte dal segreto di Stato.
Né a diverso convincimento induce il 9° co. dell’art. 156, che attribuisce al personale del Garante, che effettua accertamenti, la qualifica di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria, in quanto ad essi, in tale veste, ed ai sensi del codice di procedura penale, sarebbe sempre opponibile il segreto di Stato.
In realtà se si legge con attenzione il 4° co. del citato art. 160, si nota che la specifica modalità di accertamento ivi contemplata si applica per il solo fatto che l’accertamento sia effettuato presso gli organismi d’intelligence
(“Per gli accertamenti relativi agli organismi d’informazione e di sicurezza ...”), o che esso si riferisca a dati coperti dal segreto di Stato, a prescindere da dove essi siano custoditi (“ ... e ai dati coperti da segreto di Stato”).
Per vero, la questione della conoscibilità o meno, da parte del Garante, di dati coperti dal segreto dovrebbe avere una valenza marginale a a seguito dell’emanazione del prima citato DPCM 10 marzo 1999, n. 294 “Regolamento recante norme per la disciplina delle categorie di documenti in possesso degli organismi d’informazione e di sicurezza sottratti al diritto di accesso ai documenti amministrativi, in attuazione dell’articolo 124, comma 4, della legge 7 agosto 1990, n. 241”.
Stante i documenti elencati nel suddetto provvedimento, in relazione ai compiti, ex lege, attribuiti al Garante, si deve ritenere che la maggior parte dei dati e delle informazioni a cui questi può avere l’esigenza di accedere attengano a documenti tutelati dal segreto amministrativo (inaccessibili o il cui accesso può essere differito in via preventiva, ex art. 8, 2° e 3° co., DPR n. 352/1992 (43) ).
Sugli accertamenti ex art. 160, 4° co., a prescindere se afferiscano o meno a dati protetti dal segreto di Stato, il componente designato riferisce oralmente nelle riunioni del Garante.
A questo punto potrebbe porsi un problema, sia pure squisitamente teorico, ma che, forse, dà conto della necessità, da più parti autorevolmente auspicata, di un intervento organico del Legislatore.
Delle riunioni del Garante, ivi comprese quelle in cui il componente designato riferisce, ex art. 160, 4° co., viene redatto verbale; in esso si dà conto dell’esito degli accertamenti e di tutto quanto di rilevante visionato. Il verbale delle riunioni del Garante rientra, a pieno titolo, fra gli atti formati dalla Pubblica Amministrazione, nella quale, ex art. 23 (44) della legge n. 241/1990, rientrano anche le Autorità di garanzia e di vigilanza.
Ora, non consta, a chi scrive, che il Garante abbia adottato il regolamento ex art. 24, 4°co., della legge n. 241/1990; ne consegue che i verbali in parola sono accessibili ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241/1990 (il diritto di accesso, abbiamo visto, è un vero e proprio diritto soggettivo all’informazione, in senso tecnico) o, in mancanza di tale regolamento, il diniego dovrà essere, di volta in volta, motivato, in modo diffuso ed esaustivo non potendosi genericamente richiamare l’esclusione regolamentare. La questione diviene di ardua soluzione, ove la richiesta sia motivata da esigenze di giustizia.
Più semplice, secondo che scrive, è il caso in cui i dati a cui si chiede l’accesso (meglio, il verbale ove sono riferiti) siano coperti da segreto di Stato. In tale evenienza, sarà sufficiente richiamare l’istituto e ove, eventualmente, si sia in presenza di un ordine di esibizione giudiziale, il segreto potrà essere confermato dal Presidente del Consiglio, con conseguente applicazione dell’art. 17 della legge n. 801/1977.



Si è giunti a quello che è uno dei punti nodali di questo scritto e cioè il rapporto tra segreto di Stato e processo amministrativo. Va, al riguardo, constatato che nel quadro normativo vigente non si rinviene alcuna specifica disposizione che disciplini la materia. Né a tale carenza si è pensato di ovviare de jure condendo, posto che nessuna previsione nel senso reca il ddl governativo di riforma della legge n. 801/1977.
Oltre alla possibilità di specifici emendamenti al disegno di legge citato, sarebbe inoltre auspicabile che la problematica trovi definizione nel nuovo disegno di legge delega di riforma del processo amministrativo – a quel che consta, in corso di elaborazione – che dovrebbe sfociare in un vero e proprio codice del processo amministrativo.
Invero, all’atto della promulgazione della legge n. 801/1977, nel contesto legislativo vigente non appariva per nulla necessaria l’adozione di specifiche disposizioni che disciplinassero i rapporti tra segreto di Stato e processo amministrativo.
Infatti, erano da poco più di tre anni entrati in funzione i tribunali amministrativi regionali, istituiti con la legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (i TAR hanno iniziato a funzionare il 1° gennaio del 1974, ma appieno solo nell’aprile dello stesso anno, quando è cessata la competenza differita del Consiglio di Stato, ex art. 38 della legge).
A ciò occorre soggiungere che, al tempo, il processo amministrativo tipico era solo un processo d’impugnazione dell’atto, volto cioè alla demolizione giuridica dell’atto gravato e che l’eventuale sindacato del giudice amministrativo sugli atti coperti da segreto di Stato non avrebbe potuto avere che natura di giudizio di merito, consentito unicamente nei casi tassativamente stabiliti dalla legge (45) . Allora – ma anche adesso – le disposizioni di legge che consentivano il sindacato di merito, da un lato, non contemplavano il segreto di Stato (art. 27 del T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con R.D. 26 giugno 1924, n. 1054 e art. 7 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034) e, dall’altro, escludevano dall’ambito della giurisdizione amministrativa gli “atti o provvedimenti emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”, fra i quali rientrano anche quelli attinenti all’opposizione del segreto di Stato (art. 31 del T.U. 26 giugno 1924, n. 1054, già artt. 22 e 23, penultimo comma, del T.U. 17 agosto 1907, n. 638), contraddistinti da discrezionalità politica, insindacabile sotto il profilo della legittimità (46) .
E non va poi trascurato il fatto che la giurisdizione generale di legittimità (all’epoca la regola rispetto a quella esclusiva e di merito) si concretava in un giudizio sull’atto e cioè su di un frammento dell’azione amministrativa (47)
Sic stantibus rebus, si dovrebbe agevolmente concludere nel senso che l’apposizione o l’opposizione del segreto di Stato sono sottratte al sindacato del giudice amministrativo.
In realtà, la questione non è esente da vari e significativi profili di problematicità. Essi discendono prevalentemente dalla trasformazione del processo amministrativo da giudizio sull’atto a giudizio sul rapporto (48) e dall’estensione a questo dei mezzi di prova del processo civile; estensione avviata dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 146 del 23 aprile 1987 (49) , che dichiarò ammissibili, nelle controversie in materia di pubblico impiego, il regime delle prove previste per il processo del lavoro e portata a compimento dal D.Lgs. n. 80/1998 (art. 35) e dalla legge n. 205/2000 (art. 16), con la sola esclusione delle c.d. prove legali (interrogatorio formale e giuramento).
Sotto il primo profilo, perché oggi vengono alla cognizione del giudice amministrativo non solo gli atti finali del procedimento, ma anche quelli endoprocedimentali (secondo una certa dottrina (50) per completare la trasformazione del processo amministrativo in processo sul rapporto è necessario che si pervenga all’applicazione a questo del principio civilistico secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile). Tanto è vero che l’art. 21, 4° co. della legge TAR, come novellato dall’art. 1, 1° co., della legge n. 205/2000, impone all’amministrazione, entro il termine ivi stabilito e a prescindere dalla sua costituzione in giudizio, di produrre il provvedimento gravato, “nonché gli atti e i documenti in base ai quali l’atto è stato emanato, quelli in esso citati e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio”
Sotto il secondo profilo, in quanto istituti tipici del codice di procedura civile sono stati innestati dal Legislatore in un sistema di istruzione probatoria ove il principio dispositivo è attenuato, si parla cioè di principio dispositivo con metodo acquisitivo (51) ; nel processo amministrativo spetta al giudice prescegliere i fatti rilevanti per la decisione, determinare il mezzo di prova più adatto ed individuare il soggetto più idoneo a rappresentarlo. Non vige l’onere della prova, ma solo del principio della prova: in forza del citato principio acquisitivo, il giudice ripartisce fra le parti l’onere della prova, derogando all’art. 2697 c.c. (52) . Le conseguenze di un eventuale inadempimento, da parte dell’amministrazione, sono state chiaramente enunciate dalla Consulta: “se ai fini della decisione occorre verificare la veridicità di fatti posti a fondamento dell’atto amministrativo impugnato, è l’organo che l’ha emanato a subire il relativo onere probatorio e le conseguenze del mancato assolvimento di questo, spettando al giudice, che abbia disposto l’acquisizione della prova individuando la parte all’uopo onerata, di trarre il proprio convincimento dal comportamento dell’amministrazione che non è stata in grado di dimostrare quanto affermato” (53) .
L’ampliamento dei mezzi istruttori nella giurisdizione esclusiva (attinente cioè tanto agli interessi legittimi che ai diritti soggettivi) si ricollega al c.d. “diritto alla prova” (artt. 24 e 113 Cost.), sancito dalla Convenzione europea sui diritti dell’uomo (54) . Invece, l’esclusione delle c.d. “prove legali” scaturirebbe dal fatto che, ove ammesse, esse finirebbero per inibire al giudice amministrativo la possibilità di ampliare la propria conoscenza, in contrasto con il richiamato principio acquisitivo (55) .
L’evoluzione che il processo amministrativo ha subìto nell’ultimo quinquennio, peraltro parallelamente alla riforma della pubblica amministrazione, impone una rilettura dell’istituto del segreto di Stato e un’interpretazione in chiave evolutiva dell’assetto normativo vigente, quanto meno sino alla promulgazione di una nuova disciplina, ove non si voglia concludere che l’istituto è stato implicitamente abrogato; conclusione alla quale, chi scrive, non ritiene di poter aderire, non foss’altro perché del segreto di Stato si parla ancora nel d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 “Codice in materia di protezione dei dati personali”.
Se, coerentemente con quanto detto all’inizio del presente paragrafo, si è orientati ad escludere che, ancora oggi, un atto contenente informazioni e notizie protette dal segreto di Stato possa essere oggetto di autonoma impugnativa, a diverse conclusioni deve pervenirsi per il caso in cui un simile documento entri nel giudizio, nell’ambito dell’attività istruttoria, o come atto endoprocedimentale o come notizie e informazioni che possano essere, in tutto o in parte, oggetto di deposizione da parte di testi.
Il problema da risolvere è se, non rinvenendosi un’espressa disposizione processuale riferita al giudizio amministrativo, la legge n. 801/1977 trovi comunque applicazione ad esso e, in ipotesi affermativa, come si rifletta sulla definizione del giudizio.
Prima di entrare nel vivo della questione, è utile rammentare che, al tempo in cui è stata promulgata la legge n. 801/1977, i soli mezzi di prova ammessi erano: i documenti, gli “schiarimenti” e le “verificazioni”; per i giudizi di merito e in taluni altri casi rientranti nella giurisdizione esclusiva (art. 44 T.U. Consiglio di Stato) era consentito “qualunque altro mezzo di prova”.
A ciò si soggiunga che, definitivamente chiarita, ad opera della migliore dottrina, la sostanziale pariteticità della giurisdizione amministrativa rispetto a quella ordinaria (ex artt. 103 e 113 Cost.) – costituendo quello che è stato definito il “giudice comune” (56) – è perfettamente ipotizzabile che il giudice amministrativo sia parte in un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Come pure è configurabile, nei confronti dello stesso, l’eccesso assoluto di potere, che si realizza con l’invasione della sfera di competenza di altro potere dello Stato.
Per impostare correttamente la questione occorre ora fare un passo indietro e tornare ad esaminare quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 24 maggio 1977, n. 86.
Muovendo dall’assunto della Corte per cui la sicurezza dello Stato – di cui il segreto di Stato costituisce uno degli strumenti di tutela – è interesse posto al vertice della gerarchia dei valori costituzionali, in quanto attinente all’esistenza stessa dello Stato, di cui la giurisdizione è un aspetto, ne deriva che la giurisdizione può subire condizionamenti e/o limitazioni ove siano in gioco interessi rilevanti afferenti alla sicurezza dello Stato; analogamente ne può risultare in qualche limitato anche il diritto di difesa. È ovvio che quando si parla di giurisdizione la si intende nella sua interezza, comprensiva cioè anche di quella amministrativa, cui la sentenza in commento fa, peraltro, espresso riferimento.
Altra affermazione di principio contenuta nella pronuncia della Corte è quella circa l’assoluta preclusione dell’ingresso del segreto (di Stato) nel processo, sotto un duplice profilo: in primo luogo, perché il giudizio sui mezzi idonei a garantire la sicurezza dello Stato (e, quindi, l’apposizione e, conseguentemente, l’opposizione) ha natura “squisitamente politica”; in secondo luogo, perché l’ingresso del segreto (di Stato) nell’ambito del processo equivarrebbe alla sua vanificazione in radice.
A quanto testé osservato deve aggiungersi che la legge n. 801/1977 detta una disciplina sostanziale del segreto di Stato, valevole “erga omnes”, in quanto finalizzata ad impedire la diffusione, in qualunque modo e in qualunque forma, di determinate notizie e informazioni. Che, per vero, se lo scopo perseguito fosse stato solo quello d’inibire la conoscibilità e/o la sindacabilità limitatamente all’ambito processuale, sarebbe stato sufficiente novellare o integrare unicamente le disposizioni di rito, senza, forse, neppure fornire la nozione di segreto di Stato. Non bisogna dimenticare infatti che, a titolo d’esempio, gli articoli 261 e 262 c.p. utilizzano la locuzione “chiunque” per individuare i soggetti che, a titolo di dolo o colpa, possono compiere i reati; mentre, l’art. 259 c.p. configura la fattispecie dell’agevolazione colposa per quei soggetti che sono in possesso dell’atto, del documento o, comunque, a conoscenza della notizia. Il carattere onnicomprensivo della terminologia utilizzata porta, quindi, a ritenere che soggetto attivo dei reati possa essere anche l’autorità giudiziaria, nell’esercizio della sua funzione.
Altro principio agevolmente desumibile dalla legge n. 801/1977 è che l’unico soggetto abilitato ad opporre, in via definitiva, il segreto di Stato è il Presidente del Consiglio. La circostanza che tale opponibilità non operi esclusivamente nei confronti dell’autorità giudiziaria (penale, stante il disposto dell’art. 15), ma anche nei confronti dell’organo parlamentare di controllo (il Comitato di cui all’art. 11), fornisce un concreto indizio della opponibilità “erga omnes” del segreto di Stato. Al Comitato, per vero, la legge fornisce adeguati strumenti di reazione, ove ritenga l’opposizione del segreto infondata, sia nei suoi confronti (art. 11, 5° co.), sia nei confronti dell’autorità giudiziaria (art. 16). A tali strumenti si assomma il più generale potere di vigilanza e controllo anche sulla definitiva opposizione del segreto da parte del Parlamento, ex art. 17.
D’altronde, la circostanza di aver disciplinato l’opposizione del segreto di Stato solo per il processo penale e non per gli altri riti, in particolare per il processo amministrativo, potrebbe trovare un’ulteriore ragione nel fatto che solo per il processo penale occorreva neutralizzare il meccanismo che avrebbe portato alla contestazione del reato di falsa testimonianza.
Ulteriore elemento atto a corroborare quanto si va prospettando è la circostanza che, in sede di riforma del codice di procedura penale, il Legislatore non si sia limitato a ricollocare il vecchio art. 352 c.p.p., come novellato dall’art. 15 della legge n. 801/1977, ma ne ha puntualizzato e ampliato la portata dispositiva.
Si può quindi fondatamente affermare che la disciplina dettata dalla legge n. 801/1977 ha natura sostanziale e, in quanto tale, è applicabile, in linea di principio, a tutte le controversie in materia di segreto di Stato.
Per quanto attiene, in particolare, il processo amministrativo, non ritiene, chi scrive, che una tale applicazione implichi uno stravolgimento, né una rielaborazione dei principi che regolano il processo amministrativo e, in special modo, l’attività istruttoria. Infatti, i meccanismi in argomento sono connotati da una notevole elasticità ed il giudice amministrativo dispone di un ampio potere istruttorio, potendo individuare le circostanze sulle quali ammettere i mezzi di prova.
Passando ad esaminare modalità ed effetti dell’opposizione del segreto di Stato nell’ambito del processo amministrativo, le ipotesi più ricorrenti potrebbero essere le seguenti: l’amministrazione, in sede di deposito della documentazione, ai sensi dell’art. 21, 4° co., come sostituito dall’art. 1, 1° co. della legge n. 205/2000, oppone, per tutti o per alcuni degli atti da produrre, il segreto di Stato; oppure, a fronte di un provvedimento istruttorio del giudice (ordinanza o sentenza interlocutoria), l’amministrazione oppone, in tutto o in parte, il segreto di Stato. È avviso di chi scrive che:
a) l’opposizione del segreto di Stato debba essere fatta per tutti gli atti comunque coperti da segreto e cioè anche per quelli la cui produzione è rimessa alla discrezionalità dell’amministrazione (“…e quelli che l’amministrazione ritiene utili al giudizio”), in quanto oggetto del giudizio amministrativo è pur sempre, anche se per grossolana sintesi, la legittimità o meno dell’operato della P.A.;
b) l’amministrazione che non oppone il segreto di Stato in sede di produzione dei documenti, ex art. 24, 4° co., citato, ma solo a fronte dell’ordinanza del giudice, ai sensi del 6° comma del medesimo articolo, non incorra in alcuna preclusione o decadenza.
In funzione, infatti, degli interessi e dei valori sottesi al segreto di Stato siamo in presenza di un obbligo e non di una facoltà; sulla base di quanto argomentato nel paragrafo II, non vi sono particolari motivi od obiezioni al fatto che il funzionario che produce in un giudizio amministrativo atti o documenti, o rende interrogatorio su notizie e informazioni protette dal segreto di Stato, non possa essere perseguito per gli specifici reati (ponendosi, quindi, anche un problema di utilizzabilità processuale della documentazione o delle notizie così acquisite). Anche in tale evenienza e come nel processo penale, una simile attività finirebbe per frustrare le finalità perseguite dagli artt.1 e 12 della legge n. 801/1977.
Naturalmente e pur non condividendo, personalmente, la soluzione adottata dal Legislatore penale, i soggetti legittimati ad opporre il segreto di Stato sono unicamente quelli individuati dal codice di procedura penale; logicamente il problema si pone in via assolutamente prevalente nel caso in cui sia stata disposta l’escussione di testi.
Una volta opposto il segreto di Stato, il giudice amministrativo dovrà chiederne conferma al Presidente del Consiglio. A parere di chi scrive, tale attività è preferibile configurarla in termini di obbligo e non di facoltà per il giudice, quanto meno relativamente a quella che, tradizionalmente, viene definita l’istruzione secondaria e per quei documenti espressamente facenti parte della fase endoprocedimentale.
Circa il termine entro il quale il Presidente del Consiglio può confermare o meno il segreto (di Stato) opposto, non vi sono particolari motivi per non ritenere applicabile il termine di sessanta giorni. Si tratta, infatti, di un termine “noto” anche al diritto amministrativo, che, tenuto conto degli interessi alla cui tutela è finalizzato, non si ritiene che possa o debba essere ridotto, anche quando la disciplina del rito prevede termini più brevi. Ovviamente, nel caso in cui il segreto non venga confermato nel termine, il giudice amministrativo disporrà la produzione dei documenti o la deposizione del teste.
Una puntualizzazione deve essere svolta relativamente alla particolare procedura di cui al citato art. 25 della legge n. 241/1990: è di agevole constatazione che la normativa vigente, sia pure applicata in via interpretativa al processo amministrativo, presuppone sempre l’intermediazione dell’autorità giudiziaria per la conferma o meno del segreto di Stato. In sintesi, non è ipotizzabile che il privato si rivolga direttamente al Presidente del Consiglio per provocare l’eventuale conferma. Il problema appare superabile dando applicazione proprio alla legge n. 241/1990: infatti, l’amministrazione a cui pervenga l’istanza di accesso a documenti coperti dal segreto di Stato, potrà legittimamente rigettarla, motivando, sinteticamente, con un richiamo all’art. 24, 1° co. della legge n. 241. Ove il richiedente voglia provocare la definitiva determinazione del Presidente del Consiglio, dovrà, necessariamente, proporre ricorso al giudice amministrativo. Analoghe considerazioni valgono per il caso di richiesta di accesso in pendenza di giudizio.
Questione più complessa è quella degli effetti della definitiva opposizione del segreto di Stato nell’ambito del processo amministrativo.
Va preliminarmente confutata la possibilità, per l’amministrazione, di ovviare alla necessità di opporre formalmente il segreto di Stato nel processo, ricorrendo a diversi escamotage per evitare la produzione in giudizio dei documenti in questione. Infatti, mentre ciò sarebbe ipotizzabile per la produzione documentale, non potrebbe invece valere per la prova testimoniale, considerato che quest’ultima è presidiata anche da specifiche disposizioni penali. Né vale opporre, in contrario, che trattasi di situazioni differenti, in quanto, in forza delle norme predisposte per il processo penale, lo Stato, in realtà, rinuncia alla sua pretesa punitiva. Una simile argomentazione, infatti, si fonda su una concezione formalistica del suddetto principio – per certi aspetti superato dalle più moderne evoluzioni interpretative – che non tiene in minima considerazione i valori e gli interessi sottesi a quella che viene definita “la pretesa punitiva dello Stato”, così anche la posizione della parte offesa nel processo penale, che assume concretezza nella costituzione di parte civile e le cui sorti, nel caso di opposizione del segreto di Stato su circostanze essenziali, per il modo in cui si conclude il processo penale, possono fondatamente essere considerate come un caso di denegata giustizia. È, infatti, assolutamente velleitario sostenere che la parte offesa potrebbe trovare ristoro nel processo civile, considerato, fra l’altro, il diverso e più rigido sistema delle prove.
La possibilità di opporre il segreto di Stato nell’ambito del processo amministrativo consente, fra l’altro, di escludere la configurabilità, in capo a determinati soggetti dell’amministrazione, del reato ex art. 328 c.p., anche se, per la migliore giurisprudenza, il presupposto per l’integrazione della fattispecie penale è la presentazione di una richiesta ostensiva completa, dalla quale emerga chiaramente l’interesse posto a base e siano indicati gli estremi del documento, ovvero gli elementi che ne consentono l’individuazione (57) appare difficilmente realizzabile con riferimento ai documenti protetti dal segreto di Stato.
Sotto il profilo, poi, della tutela accordata dall’ordinamento, non è prefigurabile alcuna menomazione, in quanto:
a) il giudice amministrativo dinanzi alla conferma del segreto di Stato ben può sollevare conflitto di attribuzione;
b) ove valuti che il segreto venga opposto per celare fatti eversivi dell’ordinamento non è preclusa certamente al giudice amministrativo la possibilità di rimettere la questione al giudice penale;
c) della conferma del segreto verrà data comunicazione al Parlamento che potrà adottare le iniziative che abbiamo già visto.
Tornando agli effetti sul processo, è evidente che le conseguenze della mancata prova variano in funzione della sua rilevanza ai fini del decidere. Pertanto, nulla osta alla pronunzia di una sentenza interamente definitiva del merito della controversia (ove, naturalmente non debba essere emessa una sentenza definitiva in rito) nel caso in cui l’istruttoria sia comunque esaustiva; diversamente, il giudice amministrativo potrà pronunciare una sentenza parziale, decidendo solo su una o alcune delle domande proposte, o su una parte dell’unica domanda.
Invece, nell’ipotesi limite dell’impossibilità della prova dei fatti contestati, dovrà ritenersi applicabile il principio dell’onere della prova, con conseguente reiezione del ricorso. Una tale soluzione è in linea con l’orientamento espresso dal Consiglio di Stato in materia di giudizio elettorale (58) . Attenendo la pronunzia al solo aspetto probatorio, essa consente di fare salvi eventuali termini prescrizionali (non quelli decadenziali), in relazione alla possibilità, nelle more, del venir meno del vincolo costituito dal segreto di Stato.
Invero, de iure condendo, sarebbe auspicabile un intervento del Legislatore volto ad attenuare gli effetti dell’opposizione del segreto di Stato, quali: la sospensione dei termini prescrizionali (qualche perplessità sorge, invece, per quelli decadenziali); la previsione di eventuali forme risarcitorie e/o d’indennizzo. Il segreto di Stato è, infatti, un costo per la collettività, assolutamente indispensabile per la tutela dello Stato; da ciò consegue che ove dall’uso legittimo dell’istituto possano derivare danni ai cittadini, questi debbano, in qualche modo essere compensati.


(1) Gazzetta Ufficiale, Parte I, 1ª Serie Speciale, n. 26 del 3 luglio 2002. Cfr. anche Per Aspera ad Veritatem, n. 1/1995 (n.d.R.).
(2) Gazzetta Ufficiale, Parte I, 1ª Serie Speciale, n. 105 del 21 aprile 1976. Cfr. anche Per Aspera ad Veritatem, n. 2/1995 (n.d.R.).
(3) Gazzetta Ufficiale, Parte I, 1ª Serie Speciale, n. 148 del 1° giugno 1977.
(4) Decreto del Presidente della Repubblica 18 novembre 1965, n. 1477 (in Suppl. ordinario alla Gazz. Uff., 15 gennaio, n. 11). - Ordinamento dello Stato Maggiore della Difesa e degli Stati Maggiori dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica, in tempo di pace - Decreto abrogato dall’art. 22, d.p.r. 25 ottobre 1999, n. 556.
(5) Gazzetta Ufficiale, Parte I, 1° Serie Speciale, n. 15 del 15 aprile 1998. Cfr. anche Per Aspera ad Veritatem, n. 10/1995 (n.d.R.).
(6) Legislatura XV - Atto Camera n. 3951, art. 6.
(7) Gazzetta Ufficiale, Parte I, 1ª Serie Speciale, n. 51 del 23 dicembre 1998. Cfr. anche Per Aspera ad Veritatem, n. 12/1995 (n.d.R.).
(8) Gazzetta Ufficiale, Parte I, 1ª Serie Speciale, n. 47 del 15 novembre 2000.
(9) Si vedano per tutte: Corte di Assise di Roma, 12 giugno1997, n. 21; Cass. Pen., Sez. IV, 25 ottobre 1999, n. 1289.
(10) Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana, Serie Generale, Supplemento Ordinario n. 114, del 21 luglio 2003.
(11) In appendice la Decisione riporta, poi, una tabella comparativa della classificazioni di sicurezza con quelle degli Stati membri, ove si legge, per l’Italia: UE SEGRETISSIMO = Segretissimo; UE SEGRETO=Segreto; UE RISERVATISSIMO=Riservatissimo; UE RISERVATO = Riservato.
(12) A titolo esemplificativo, si vedano, tra le più recenti: L. 20.3.2003, n. 75: “Ratifica dell’Accordo tra il Governo della Repubblica italiana ed il Governo della Repubblica di Croazia sulla cooperazione nel settore della difesa, fatto ad Ancona il 19 maggio 2000”; L. 20.3.2003, n. 76: “Ratifica ed esecuzione del Memorandum d’intesa tra il Ministero della Difesa della Repubblica italiana ed il Ministero della difesa della Repubblica araba d’Egitto sulla cooperazione nel settore della difesa, con Annesso A, fatto a Roma il 23 maggio 1998”; L. 17.6.2003, n. 148:”Ratifica ed esecuzione dell’Accordo quadro tra la repubblica francese, la Repubblica federale di Germania, la Repubblica italiana, il regno di Spagna, il regno di Svezia e il Regno Unito della Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord relativo alle misure per facilitare la ristrutturazione e le attività dell’industria europea per la difesa, con allegato, fatto a Farnboraugh il 27 luglio 2000, nonché modifiche alla legge 9 luglio 1990, n. 185”.
(13) La legge n. 801, interviene sul Codice penale del 1931 e su di un codice di rito, oggetto, nel 1989, di una epocale riforma.
(14) STURLA, “Prova testimoniale”, in Digesto Penale, X, Torino, 1995, 430.
(15) CORDERO, “Codice di procedura penale commentato”, Torino, 1990.
(16) SURLA, cit., 431; PAOLOZZI, “La tutela processuale del segreto di Stato”, Milano, 1983, 413.
(17) GAITO, MONTAGNA,”Procedibilità”, Enciclopedia del diritto, II aggiornamento, Milano, 1998, 732 e 746.
(18) PAULONI, “La tutela processuale del segreto di Stato”, Milano, 1983, 300.
(19) Cass. Sez. II, 22 gennaio 1997, Veronese, CED 208469.
(20) Cass., VI, 2 febbraio 2000, n. 1289.
(21) Cass., Sez. I, 12 settembre 1985, n. 8018.
(22) Cass. Pen. I, 7 febbraio 1966, n. 188.
(23) Cass. I, 13 maggio 1960.
(24) Cass. I, 5 febbraio 1962.
(25) Cass. Pen. 23 aprile 1982, n. 4240.
(26) Cass. IV, 2 febbraio 2000, n. 1289.
(27) Cass. I, 17 marzo 1989, n. 3929.
(28) C. Cost., sent. 6 aprile 1976, n. 82, cit.
(29) Cass. Pen., 2 febbraio 2000, n. 1289.
(30) Per tutte: Corte di Assise di Roma, sent. 21 dicembre 1996, n. 40/96; idem, sent. 12 giugno 1997, n. 21/97.
(31) P94127R-174, in “L’accesso ai documenti amministrativi”, vol. 7, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per il Coordinamento Amministrativo, Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria.
(32) C.d.S., IV, 19 marzo 2001, n. 1621; conforme: C.d.S., VI, 26 gennaio 1999, n. 59; per una disamina completa sui principi e sulla portata innovativa della legge n. 241/90: C.d.S., V, 2 aprile 2001, n. 1893.
(33) Commissione, P96486R-III 36, vol. cit.
(34) C.d.S., IV, 4 luglio 1996, n. 820, in: Cons. St., 1996, VII-VIII, p. I, 1096.
(35) Sez. I n. 3348/2002, cit.
(36) Sent. n. 295/2002.
(37) Atto Camera n. 3890.
(38) Pubblicato sul S.O. della G.U. del 23 luglio 2003, n. 174 . supplemento ordinario n. 123/L.
(39) Art.4 della legge 675/99 “ particolari trattamenti in ambito pubblico”- 1. La presente legge non si applica al trattamento di dati personali effettuato: .. lettera b) dagli organismi di cui agli articoli 3, 4, e 6 della legge 24 ottobre 1977, n. 801 ovvero sui dati coperti da segreto di Stato ai sensi dell’articolo 12 della medesima legge.
(40) Art. 1 “Chiunque ha diritto alla protezione dei dati personali che lo riguardano.
(41) Si vedano le “Tavole di corrispondenza . . .”, annesse al Codice.
(42) Art. 160- Capo III – Titolo II L’Autorità.
(43) Art. 8 disciplina dei casi di esclusione - comma 2 “i documenti non possono essere sottratti all’accesso se non quando siano suscettibili di recare un pregiudizio concreto agli interessi indicati nell’art. 24 della legge 7 agosto 1990, n. 241. I documenti contenenti informazioni connesse a tali interessi sono considerati segreti solo nell’ambito e nei limiti di tale connessione. A tale fine, le amministrazioni fissano , per ogni categoria di documenti, anche l’eventuale periodo di tempo per il quale sono sottratti all’accesso” - Comma 3 “ In ogni caso i documenti non possono essere sottratti all’accesso ove sia sufficiente far ricorso al potere di differimento”.
(44) Art. 23 “ Il diritto di accesso di cui all’art. 22 si esercita nei confronti delle pubbliche amministrazioni, delle aziende autonome e speciali, degli enti pubblici e dei gestoti di servizi pubblici. Il diritto di accesso nei confronti delle Autorità di garanzia e di vigilanza si esercita nell’ambito dei rispettivi ordinamenti, secondo quanto previsto dall’art. 24”.
(45) C. Cost., sent. 24 maggio 1977, n. 86, cit.
(46) Si veda: TAR Bolzano, 5 marzo 1997, n. 547, sulla discrezionalità conferita dal TULPS e C.d.S., vi, 16 aprile 2003, n. 1979, in materia di “informativa supplementare atipica” e giurisprudenza ivi richiamata, in Giust. it, n. 4/2003.
(47) M. Clarich, “Il processo amministrativo a rito ordinario”, dalla relazione presentata al convegno dell’Associazione italiana dei professori di diritto amministrativo. “Innovazioni del diritto amministativo e riforma dell’amministrazione, Roma, 22 marzo 2002, Riv. dir. Proc., 2002, n. 4..
(48) si veda Cass. SS. UU., n. 500/1999.
(49) Gazzetta Ufficiale, n. 18, del 29 aprile 1987.
(50) Clarich, op. cit.
(51) Clarich, cit.; Nigro, op. cit., 227.
(52) C.d.S., V, sent. 615/1949, in Rass.dir. pubbl., 1950, II, 865; C.d.S., IV, sent. N. 3493/2000, in Cons. St., I, 1456.
(53) sent. n. 251 del 16 – 18 maggio 1989, Gazzetta Ufficiale, n. 21 del 24 maggio 1989.
(54) S. Veneziano, “I nuovi mezzi di prova nella giurisdizione di legittimità e nella giurisdizione esclusiva.
(55) F. Benvenuti, “L’Istruttoria nel processo amministrativo”, Padova, 1953, pag. 348.
(56) Nigro, op. cit., pag. 130.
(57) Trib. Piacenza, 2 febbraio 1995, in Riv. pen., 1995, pag. 617.
(58) Sez. V, sent. n. 57/1983, in Foro it., 1983, III, pag. 246.

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